La Stampa, 17 gennaio 2019
Storia di Popeye Braccio di Ferro
Doveva esserci qualcosa di strano nell’aria, nell’inverno americano tra il 1928 e il 1929. E la buona sorte doveva aver deciso di darsi un gran da fare per aiutare i creativi.
Mickey Mouse e Popeye, Topolino e Braccio di Ferro, destinati entrambi a diventare icone dell’immaginario occidentale, nascono a due mesi di distanza: il 18 novembre il primo, il 17 gennaio il secondo. Ed entrambi, in fondo, sono figli del Caso. Ma se Walt Disney, persi i diritti del personaggio prediletto Oswald, aveva coscientemente puntato le sue carte sul Topo, su Popeye non ci aveva scommesso nessuno. Neppure il suo creatore.
Elzie Crisler Segar aveva iniziato a disegnare a Chicago con una non memorabile serie su Charlot. Lasciato l’Illinois per New York, nel 1919 era approdato al Journal con una strip che aveva chiamato Thimble Theatre, nella quale raccontava la vita della famiglia Oyl: Olivia e suo fratello Castor, i genitori Nana e Cole, gli zii Otto e Lubry. Popeye arriva dopo dieci anni di Thimble, senza progetti né premeditazioni: Castor, il fratello di Olivia, aveva bisogno di una nave per andare in Africa. Al porto, si trova davanti questo tipo magro, senza denti, con gli avambracci enormi e tatuati. Nel disegnarlo, Cesar si era ispirato a Rocky Fiegal, un signore che lo faceva ridere da piccolo, nelle strade di Chester, la sua città natale. Una caricatura, più che un personaggio: uno di quei caratteristi destinati a recitare per una puntata o due e sparire.
Dal 17 gennaio al 25 giugno 1929 Braccio di Ferro accompagna gli Oyl nella loro avventura sul mare, picchia un po’ di cattivi, litiga con Olivia ancora fidanzata con tale Harold e alla fine si becca pure un bel po’ di proiettili in corpo. Poi, tornato al porto, saluta tutti senza progetti di ritorno.
Ma i fumetti, in quegli anni grigi e disperati, erano tra le poche consolazioni della gente comune: adulti, non bambini, assidui lettori di quotidiani. A loro, il coraggio di quel marinaio incolto ma a suo modo saggio era piaciuto molto. E cominciarono a chiederne a gran voce il ritorno.
Tra i fan di Popeye c’era anche Max Fleischer, il re dei cartoon della costa Est che aveva sconvolto il mondo allegro e asessuato dell’animazione con le curve provocanti di Betty Boop. Max non era geniale come Walt, ma abbastanza scafato per capire il potenziale del marinaio con la pipa. «Più lui sembra buffo, più bello sarà il cartoon», dirà a J. D. Gortatowsky, il boss del King Features Syndicate che gli chiedeva stupito se davvero volesse comprargli i diritti.
Siamo nel 1932 e tutto ricomincia da capo: da questo momento, infatti, i Popeye saranno due: quello dei fumetti e quello dei disegni animati. Uguali nell’aspetto, ma diversissimi nei comportamenti. Quello di Segar, per dire, non mangerà gli spinaci che due volte in 10 anni (e in una sembra persino che alludesse alla marijuana, spinach nel gergo dei bassifondi di New York).
Anche il coetaneo Topolino vivrà due vite parallele, ma dal diverso destino. Quello che è arrivato fino a noi non è lo scatenato Mickey Mouse del cinema, ma quello maturo e «borghese» della carta. Il «nostro» Popeye, invece, è quello animato, dalle storie divertenti ma in fondo ripetitive: c’è Olivia, c’è Bluto, c’è la pipa che suona le note nella canzoncina e ci sono gli spinaci magici.
Braccio di Ferro picchia, fuma e parla male. Questo alla fine sarà il suo limite: è datato, persino anacronistico in tempi di politically correct, tanto che tutti i tentativi di rimodernarlo sono finiti maluccio, a partire dal film di Altman con Robin Williams.
Peccato, perché Popeye ha in sé una serie di elementi fuori degli schemi che avrebbero meritato un successo più duraturo. A partire dalla figura di Olivia, che interpreta a suo modo il ruolo della fanciulla svampita da salvare: non è una fidanzata modello alla Minnie: flirta, cambia uomo, tiene i pretendenti sulla corda. «Nel corto del ’36 Clean Shaven Man», ricorda Leslie Camarga nella sua monografia sui Fleischer, «Olivia racconta di essere attratta soltanto da uomini calvi e senza barba. Bluto e Popeye si scatenano in una gara per apparire più glabri possibile. Quando escono dalla bottega del barbiere, però, la vedono con un tale completamente coperto di barba e capelli».
Per sfidare il tempo bisogna saper cambiare, e Popeye è rimasto legato al suo tempo: uguale a sé stesso e fedele al suo motto sgrammaticato: «I Yam What I Yam & Dats What I Yam, io sono quel che sono e questo è tutto quello che sono».____«Sono felice di dirLe che Popeye è libero e di annunziarLe nello stesso tempo: l’agenzia italiana della casa cinematografica Paramount ha ripreso attivissimamente la distribuzione dei cartoni animati di Popeye (il quale si chiama e dovrà da Lei essere chiamato, nella versione italiana, Braccio di Ferro)››.
Con questa lettera del 24 settembre 1937 Gugliemo Emanuel, l’agente del King Features Syndicate, l’azienda che distribuisce le strisce di Popeye, raccomanda il nome italiano del personaggio a Lotario Vecchi, suo primo editore nel nostro Paese.
Popeye scompare dalle edicole alla fine del decennio, quando per volontà di Mussolini è sospesa l’importazione di fumetti americani, ma negli Anni Sessanta vi imperversa in grande stile. Linus, la prima rivista di fumetto d’autore, ristampa i classici del suo creatore Elzie Crisler Segar, le strisce del suo allievo Bud Sagendorf escono sull’Unità e poi su Paese Sera e l’editore Renato Bianconi inizia a pubblicare storie di produzione italiana. Realizzato da bravi autori come Alberico Motta, Tiberio Colantuoni, Sandro Dossi e Pierluigi Sangalli, il Braccio di Ferro italiano uscirà per oltre trent’anni. Negli Anni Settanta le avventure di Segar approdano sugli Oscar Mondadori e sulla rivista Il Mago, diretta dal giornalista torinese Beppi Zancan.
Il feeling del marinaio guercio con il nostro Paese continua ancora adesso: fra il 2017 e il 2018 è uscita in edicola l’edizione integrale delle strisce di Segar in una sessantina di albetti settimanali, curata dall’esperto di fumetto Luca Boschi, con le traduzioni di Pier Luigi Gaspa e dello stesso Boschi. E nel 2018 Popeye è anche tornato in libreria con la nuova edizione (per Oblomov, la casa editrice del fumettista Igor Tuveri detto Igort) della sua prima avventura, Bernice la Gallina Fischiona, pubblicata come se fosse un moderno graphic novel.
Tra i fan illustri del personaggio c’è il doppiatore, direttore del doppiaggio e fumettista Fabrizio Mazzotta. «Amo Popeye sin da bambino», dice. «Grazie alle storie di Segar (e a quelle Italiane edite da Bianconi) ho imparato a disegnare. Popeye è stato un po’ il mio “imprinting”: ha condizionato il mio modo di disegnare e di fare umorismo. Umorismo che uso nella vita e, quando serve, nel mio mestiere di doppiatore!››.