La Stampa, 17 gennaio 2019
I presidenti del Messico a libro paga del Chapo
Tutti contro il «Chapo», il «Chapo» contro tutti e ora le trame occulte del narcotraffico messicano arrivano anche a toccare gli ex presidenti messicani Calderón e Peña Nieto. È la grande storia della cocaina quella che si sta raccontando, fra dichiarazioni e accuse incrociate, al processo in corso a New York contro Joaquím «El Chapo» Guzmán, il potente boss del cartello della droga di Sinaloa, padrone per quasi vent’anni del «corridoio pacifico» della coca colombiana verso gli Stati Uniti.
Deve rispondere a 11 capi d’accusa, tra cui omicidio, narcotraffico e frode fiscale; incamminato verso una condanna praticamente certa all’ergastolo, si salva dalla pena di morte solo perché questa è stata esclusa a priori dall’accordo d’estradizione sottoscritto tra il Messico e Washington all’inizio del 2017. Lui si proclama innocente, la strategia del suo avvocato difensore Jeffrey Lichtman punta a sminuire il suo ruolo nella potente organizzazione che sarebbe riuscita a commercializzare più di 150 tonnellate di droga negli Usa. Ma contro di lui stanno sfilando gli altri boss della droga, perlopiù colombiani, estradati da tempo e che oggi collaborano con la giustizia americana. Si scopre così la storia della guerra fra i clan e le loro relazioni o presunte tali con pezzi importanti dello Stato messicano.
Protetti dalle autorità
Il primo a tirare in ballo gli ex presidenti Felipe Calderón (2006-2012) ed Enrique Peña Nieto (2013-2018) è stato proprio Lichtman due mesi fa. «Le maxi tangenti ci sono state, ma a pagare non è stato Guzmán, ma i veri capi dell’organizzazione». Per corroborare la sua tesi ha portato in aula personaggi come l’ex narco colombiano pentito Alex Cifuentes, che ha confermato un pagamento di 100 milioni di dollari a Peña Nieto nel 2012 e un altro di 12 milioni al suo predecessore Vicente Calderón. L’ex portavoce di Peña Nieto, che ha terminato il suo mandato a fine novembre, ha detto che si tratta di falsità colossali, ricordando che l’arresto di Guzmán è stata una priorità del governo uscente fin dall’inizio. Smentite anche da Calderón che, a dire il vero, era già stato tirato in ballo da un altro pentito di Sinaloa, Jesus «El Rey» Zambada. Zambada sostiene che Sinaloa ha pagato 10 milioni di dollari nel 2006 a Genaro García Luna, ministro della sicurezza di Calderón, affinché l’azione dell’esercito messicano contro i cartelli si concentrasse sui clan rivali di Tijuana e Juarez. Un sospetto, questo, circolato più volte in Messico; nei 6 anni di mandato di Calderón furono arrestati 53.000 soldati dei narcos, ma appena mille di questi erano al soldo di Sinaloa. Il giudice Brian Cogan ha chiesto che si tuteli in aula la dignità di persone che non sono al centro del processo. Che i cartelli della droga, da Pablo Escobar in poi, abbiano goduto di una certa protezione da parte delle autorità colombiane e messicane è cosa risaputa, ma è la prima volta che si accusa direttamente ex capi di Stato. Il processo al Chapo è entrato nel vivo in concomitanza con il lancio mondiale della quarta stagione della serie televisiva Narcos di Netflix, che racconta proprio l’origine del narcotraffico in Messico, partendo dal «padrino» Felix Gallardo, il primo boss a stringere l’alleanza con i colombiani per trasportare la coca. Il «Chapo» iniziò la sua ascesa come bodyguard di Gallardo e quando questi fu arrestato si impose su tutti. Divenne in pochi anni uno degli uomini più ricchi al mondo, con un patrimonio stimato da Forbes in 14 miliardi di dollari. La sua forza risiedeva nell’esercito di sicari sotto contratto e nell’enorme flotta di aerei, barche e persino piccoli sottomarini con i quali trasportava la droga lungo tutto la costa pacifica messicana fino agli Usa. «Chiedeva il 40% del valore della merce – ha ammesso l’ex narco colombiano Juan Carlos “Chupeta” Ramirez, nel processo – ma la merce era al 100% al sicuro e arrivava in una settimana. È stato, senza dubbio, il migliore di tutti».