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 2019  gennaio 16 Mercoledì calendario

L’Africa Orientale è il nuovo fronte a capo della jihad mondiale

La ripetizione, con un copione quasi identico, dell’attacco di cinque anni fa al centro commerciale Westgate, segna una sconfitta pesante per le forze di sicurezza del Kenya e una rivincita degli Al-Shabaab, che in questi cinque anni hanno dovuto subire la controffensiva americana, con droni e commando, sul loro territorio somalo. I jihadisti sono stati indeboliti da una scissione, minoritaria, pro-Isis e dall’eliminazioni dei loro principali leader, a cominciare da Ahmed Abdi Godane nel settembre del 2014 e Ali Mohamed Hussein nel luglio del 2017. La capacità di resistere alla doppia pressione dell’esercito kenyota e delle forze speciali statunitensi dimostra però come l’Africa orientale sia diventata uno dei fronti più promettenti della jihad mondiale, con la Somalia che rappresenta un «piccolo Afghanistan», dove operano uno accanto all’altro lo Stato islamico e una importante fazione di Al-Qaeda, appunto gli Al-Shabaab, e dove il governo di Mogadiscio appoggiato dall’Occidente riesce a controllare a mala pena un terzo del territorio.


Ma se la Somalia resta il teatro principale, il Kenya rappresenta per gli Shabaab una retrovia fondamentale e un bersaglio in grado di moltiplicare gli effetti propagandistici degli attacchi. Un altro Paese amico dell’Occidente, ma più avanzato e ricco, eppure esposto ad attentati continui. Lo scontro fra i jihadisti e le forze di sicurezza kenyote è di lunga data. Nel 1998 Al-Qaeda attaccò l’ambasciata americana di Nairobi, con 213 vittime, in un massacro preludio dell’assalto alle Torri Gemelli. Gli Stati Uniti hanno allora aiutato il Kenya a combattere i jihadisti fin nello loro basi in Somalia, un’azione culminata nell’intervento diretto dell’esercito kenyota alla fine del 2011, nell’ambito della missione Amison. Con il dispiegamento di un contingente in Somalia il Kenya si è ritrovato definitivamente in prima linea. E gli Shabaab hanno risposto con attacchi devastanti. Su tutti quello del 21 settembre 2013 al Westgate di Nairobi, 67 vittime. Nel 2014 un altro raid, in un hotel nella città a maggioranza cristiana di Mpeketoni, porta alla morte di oltre 60 persone. Lo schema, irruzione, presa di ostaggi, massacro finale, viene ripetuto al campus universitario di Garissa nell’aprile del 2015: quasi 150 studenti uccisi, altre centinaia rapiti.
I qaedisti intanto conducono una guerriglia micidiale anche contro le truppe kenyote in Somalia, con decine di attacchi alle basi e centinaia di militari trucidati. Alla fine del 2012 gli Shabaab si impiantano in un’area inaccessibile fra il Kenya e la Somalia, la foresta di Boni, nella zona fra Garissa e Lamu. Di lì compiono raid in tutte e due le direzioni. Secondo il governo kenyota hanno un rete di supporto anche a Nairobi, nei quartieri abitati da immigrati somali, in gran parte irregolari, che vengono sottoposti a frequenti rastrellamenti da parte della polizia. In Kenya gli Shabaab si appoggiano a una fazione jihadista locale, il Jaysh Ayman, dal nome del fondatore Maalim Ayman. I miliziani del gruppo sono in gran parte nativi della regione costiera del Kenya, ma hanno integrato combattenti stranieri, persino statunitensi. 
Shabaab è parola in lingua somala, simile all’arabo, che significa «giovani», ma il nome completo del gruppo è Movimento dei giovani mujaheddin. Il Center for Strategic and International Studies (Csis) stima il numero di combattenti fra i 3 e i 7 mila, il che pone la Somalia al sesto posto per numero di jihadisti, dopo Siria, Afghanistan, Pakistan, Iraq e Nigeria. E gli Shabaab sono responsabili di un quarto degli attacchi condotti da Al-Qaeda in tutto il mondo nel 2017, vale a dire circa 350 su 1400 complessivi.