Corriere della Sera, 16 gennaio 2019
Chi sono e cosa vogliono gli Shabaab
Le stragi degli Shabaab somali «parlano» da sole e confermano quanto la fazione rimasta fedele all’idea di Osama conservi la sua capacità distruttiva. Diverse le ragioni della «resistenza» nonostante i bombardamenti aerei statunitensi – 4 nei primi giorni del 2019 – e la presenza del contingente multinazionale africano al quale il Kenya ha fornito uomini e risorse. Per questo il Paese è diventato, nel tempo, un target primario degli islamisti.
C’è una spiegazione, articolata dagli esperti. Dopo un periodo di sconfitte, il movimento ha affidato le sue colonne a mujaheddin con grande esperienza. Abukar Alì Adan è diventato numero due e Moallim Osman è stato nominato capo dell’apparato militare: proprio tre anni fa è stato lui a coordinare la conquista della base di El Adde, in Somalia, uccidendo 140 soldati kenioti. Perdita pesante, colpo all’orgoglio dell’esercito. Una vittoria resa possibile da una tecnica ormai consolidata. Gli insorti hanno sferrato un’azione multipla suicida all’esterno dell’accampamento, quindi hanno dato luce verde all’assalto della «fanteria». Il tutto preceduto da un lavoro di intelligence accurato e dalla ricerca di appoggi all’interno.
Lo schema è stato ripetuto in parte nell’attacco all’hotel Dustin con le deflagrazioni all’ingresso per aprirsi la strada nei pressi del check point della sicurezza, quindi l’infiltrazione e gli spari sulle persone presenti nell’edificio. Anche in questo caso sembra scontato che il commando abbia eseguito una ricognizione per studiare le eventuali misure di protezione, i punti critici, le abitudini delle guardie in servizio, spesso tradite dalla routine.
I precedenti
I jihadisti colpirono nel 2013 il complesso Westland con lo stesso modus operandi
L’analista Katharine Petrich ha segnalato come gli Shabaab abbiano una loro rete di fiancheggiatori e spie nella capitale del Kenya, in qualche caso si tratta di prostitute che scambiano informazioni, spillate ai clienti, per denaro. Questi contatti insieme alla corruzione dei funzionari (o agenti) aiutano gli estremisti nel portare avanti i loro piani. Un attentato sventato in febbraio ha mostrato come il gruppo fosse stato in grado di acquistare un’auto a Nairobi, di portarla poi in Somalia per trasformarla in veicolo-bomba, infine di trasferirla nuovamente in Kenya. Per fortuna l’anti-terrorismo li ha bloccati. Quanto ai finanziamenti un report dell’Onu ha elencato le fonti del denaro, dalle tasse imposte a qualsiasi attività al contrabbando, compreso quello di carbone verso l’Iran via Dubai.
I jihadisti si sono già macchiati di un massacro a Nairobi colpendo, nel 2013, il centro commerciale Westland, episodio che per modus operandi è la copia sanguinosa di ieri. Ma si tratta solo di una componente di una strategia condotta con guerriglia, manovre belliche quando si tratta di annientare postazioni e attacchi terroristici in aree urbane o contro il trasporto aereo. Una minaccia ormai nota, ripetitiva e nel segno di al Qaeda – mai morta, ricordiamolo – ma contro la quale i kenioti non riescono a trovare una risposta efficace. E sarà interessante vedere come reagirà la Casa Bianca, visto che si è parlato di un possibile riduzione dell’impegno anti-Shabaab dopo aver decimato le file dei combattenti. Una fonte anonima ha dichiarato alla Nbc che «c’erano meno target» da neutralizzare.