La Stampa, 16 gennaio 2019
I trucchi 3D di Rembrandt
C’era un ingrediente segreto nella tavolozza di Rembrandt. E proprio grazie a questo il maestro del Secolo d’Oro olandese riusciva a ottenere gli effetti illusionistici che permettono ad alcuni suoi dipinti di raggiungere una profondità tridimensionale. Scoprirlo non è stato facile.
Per trovare l’elemento nel denso impasto della pittura un team internazionale guidato dai ricercatori dell’Università di Delft e del Rijksmuseum ha sottoposto alla luce dell’Esrf - il sincrotrone europeo di Grenoble - minuscoli frammenti da alcuni quadri di Rembrandt: il «Ritratto di Marten Soolmans», il «Bagno di Batsheba» e «Susanna». Le tre opere, provenienti dal Rijksmuseum di Amsterdam, dal Louvre di Parigi e dal Mauritshuis dell’Aia, appartengono a fasi diverse nell’attività del grande pittore: «Susanna» e il ritratto risalgono agli Anni 30 del 1600, «Batsheba», completata nel 1654, è del periodo della maturità. In tutti i campioni la luce del sincrotrone ha individuato tracce di plumbonacrite, un minerale cristallino di piombo molto raro e il cui uso non è documentato tra i pittori del XVII secolo. Finora era stato trovato solo in alcuni quadri moderni e nel degrado del minio (rosso di piombo) in una tela di Van Gogh. Rembrandt lo impiega per il suo bianco, pastoso e lucente.
Diffrazione dei raggi X
«Non ci aspettavamo di trovarlo in quadri di questa epoca, è del tutto inusuale», spiega Victor Gonzalez, che ha coordinato l’équipe e ha firmato lo studio pubblicato sulla rivista «Angewandte Chemie». «Soprattutto, abbiamo dimostrato che la presenza della plumbonacrite non è casuale, o dovuta a contaminazione, ma è il risultato di una sintesi voluta». Appare invece come un gioco del destino che la luce sottilissima del sincrotrone di Grenoble abbia rivelato uno dei misteri dell’arte del maestro olandese della luce. Gli scienziati hanno analizzato i campioni di pittura con due «linee di luce» combinate insieme: una risoluzione angolare della diffrazione dei raggi X e dei micro raggi X. «In passato abbiamo usato queste due tecniche insieme su pigmenti di bianco di piombo con successo. Sappiamo che la combinazione di queste linee di luce ha come risultato una diffrazione ad alta qualità e, di conseguenza, informazioni dettagliate sulla composizione della pittura», dice Marine Cotte, scienziata dell’Esrf, specializzata nelle analisi delle opere d’arte.
Le indagini sugli impasti di colori di Rembrandt hanno una storia variegata. Nella maggior parte si tratta di pigmenti reperibili sul mercato, a cui attingevano gli altri artisti della gilda di Amsterdam. Ma questi non bastavano a spiegare lo speciale effetto in 3D. Opere celebri, quali la «Ronda di notte», hanno una superficie dalla finitura liscia, in altre come «Giacobbe che lotta con l’Angelo» la materia pittorica è mossa, con rilievi diversi. La lucentezza dei colori accentua l’effetto.
Il punto è nella difficoltà di stendere e fissare la pennellata in rilievo. In passato si era pensato che il pittore riscaldasse i leganti, gli oli di semi di lino, di papavero o noci. Erano state cercate prove che aggiungesse cera oppure resina di pino all’impasto, senza successo. Si è anche ipotizzato che Rembrandt e Rubens avessero scoperto come produrre olio tissotropico per pennellate fluide su una materia densa, il che rimane altamente improbabile. Ora arriva la scoperta della plumbonacrite nella ricetta pittorica del maestro.
I ricercatori, però, ritengono che la ricetta non sia completa. Che rimangano elementi misteriosi da svelare. Uno degli enigmi riguarda come Rembrandt ottenesse il raro minerale. L’artista aveva contatti con circoli esoterici di alchimisti e cabalisti, a cominciare da Costantijn Huygens, il dotto e influente segretario del principe di Orange, collezionista di manoscritti rosacrociani, che gli procurò ricche committenze. La celebre incisione nota come l’«Apprendista di alchimia» o «Faust nel suo studio» mette in scena un erudito rivolto verso la visione di un disco luminoso in cui si trovano scritte dai significati multipli, un metodo classico degli scritti alchemici.
Lenti o macchina oscura
Molti degli effetti ottici, poi, si notano soltanto a distanza, mentre Rembrandt dipingeva da vicino. Si è così pensato che utilizzasse delle lenti oppure una rudimentale macchina oscura, come per il suo contemporaneo Torrentius, condannato per magia e i cui quadri, tranne una sorprendentemente fotografica «Natura Morta», oggi conservata al Rijksmuseum, sono stati distrutti o sono andati perduti. Un indizio sui propositi dell’artista è relativo alla firma: Rembrandt Harmenszoon van Rijn nella maggior parte delle sue opere inscrive solo il primo nome. Anzi, arrivato a metà della vita, lo cambia: al nome di battesimo Rembrant aggiunge la lettera «d» prima del finale. Nell’olandese antico «brandt» significa fuoco o luce e «rem» ostruzione, che può essere traslata in oscurità. Insomma, una firma che, tradotta, suona come chiaroscuro.
Un gioco tra luce e ombra sul quale la luce accelerata del sincrotrone sta gettando un nuovo e insospettato chiarore.