La Stampa, 16 gennaio 2019
Lo Stato di Andreotti
Mentre il centenario dalla nascita di Giulio Andreotti, il più longevo e discusso uomo politico della storia italiana, viene celebrato con mostre e libri, Giuliano Turone illumina «una pagina buia nella storia del Paese: l’attacco giudiziario romano alla Banca d’Italia». Lo fa nel libro Italia occulta (Chiarelettere), in cui riannoda le vicende decisive di «un periodo piuttosto breve ma terribile a cavallo tra gli Anni 70 e gli Anni 80, ricco di misteri e di delitti efferati» e in cui la P2 secerne «fenomeni criminali e anti-istituzionali di devastante pericolosità», tali da «mettere a rischio l’equilibrio costituzionale del Paese».
La data chiave è il 26 marzo 1979, «una giornata nefasta» per la Repubblica. «Muore quel galantuomo di Ugo La Malfa e gli uffici giudiziari romani - precisamente il pubblico ministero Luciano Infelisi e il giudice istruttore Antonio Alibrandi - portano a compimento un’oscura operazione» contro la Banca , arrestando il capo della Vigilanza Mario Sarcinelli e incriminando a piede libero (solo per ragioni di età) il governatore Paolo Baffi. «Evidentemente colpiti, con un procedimento penale pretestuoso e strumentale, per la loro fermezza e il loro rigore» nell’opporsi a salvataggi e colpi di spugna bancari, in primis a beneficio di Michele Sindona.
Baffi e Sarcinelli vengono accusati di interesse privato in atti d’ufficio e favoreggiamento, per non aver trasmesso all’autorità giudiziaria le informazioni contenute in un’ispezione sul Credito Industriale Sardo. «Eccessivo potere di un solo giudice», scriverà Arturo Carlo Jemolo su La Stampa del 26 aprile, criticando l’uso disinvolto dell’azione giudiziaria e riconoscendo a Baffi «prestigio morale» e a tutta la dirigenza della banca centrale «correttezza e scrupolosità».
L’inchiesta si concluderà nel 1981 con il proscioglimento di Baffi, Sarcinelli e di tutti i 79 indagati, ma nel frattempo dirompenti effetti politici e istituzionali si sono già prodotti: «la subdola manovra» ha ottenuto il risultato di «allontanare i due rigorosi e quindi scomodi dirigenti dai loro incarichi». Colpito dal provvedimento cautelare (arresto poi tramutato in interdizione dall’ufficio), Sarcinelli riacquista la piena libertà solo dopo aver lasciato il cruciale posto di capo della Vigilanza. Baffi si dimette nell’estate dello stesso anno. Con La Malfa, tre avversari in meno per Sindona (e per i suoi sodali, politici e mafiosi). Il banchiere siciliano si occuperà poi di eliminare l’avvocato Giorgio Ambrosoli, commissario liquidatore della Banca Privata Italiana che in Baffi e Sarcinelli aveva trovato sostegno, e di ridurre a miti consigli Enrico Cuccia, presidente di Mediobanca.
Ambrosoli sarà assassinato l’11 luglio dello stesso anno da un sicario ingaggiato da Sindona. Baffi fu uno dei pochi esponenti istituzionali a partecipare al funerale. Di quell’«eroe borghese», nulla Andreotti scrive sui suoi diari, salvo dire, anni dopo in una spettrale intervista televisiva, che «Ambrosoli se l’andava cercando».
Magistrato in pensione (arrestò Luciano Liggio e indagò con Gherardo Colombo sulla P2), Turone non ha perso il gusto dell’investigazione. Dunque rilegge il caso con un metodo innovativo, attraverso l’analisi comparata dei diari dello stesso Baffi e di Andreotti. «Due uomini che più diversi tra loro non potrebbero essere» e Turone non nasconde la sua scelta di campo. «Annotazioni affrante, a tratti indignate, ma sempre dignitose» quelle di Baffi; «fredde, accorte, sibilline, sfuggenti e a tratti velatamente beffarde» quelle di Andreotti, all’epoca presidente del Consiglio per la quinta volta.
«Nell’immediato - scrive Turone - Andreotti tace enigmaticamente, però dissemina con puntiglio annotazioni e chiose nei suoi diari a futura memoria». In quelli poi pubblicati nel 1981 da Rizzoli, la prima annotazione è del 2 aprile, una settimana dopo l’arresto: «Per reagire contro l’arresto di Sarcinelli e l’avviso a Baffi, un gruppo di professori firma una dichiarazione-manifesto. Temo che non giovi a trovare una rapida via d’uscita». Più interessante è però quanto l’allora capo del governo scrive su altri diari, privati ma acquisiti anni dopo dall’autorità giudiziaria nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, per il quale Andreotti fu definitivamente assolto in Cassazione dopo una condanna, malamente motivata, in Appello.
Dalle agende personali di Andreotti emerge un attivismo tutt’altro che neutrale su questa «triste e kafkiana vicenda». La Banca d’Italia è paralizzata. Baffi medita subito le dimissioni. La sera del 19 aprile incontra Andreotti, che gli suggerisce - così annota il governatore nei suoi diari - di revocare la delega sulla vigilanza bancaria a Sarcinelli. La Banca d’Italia difende il suo dirigente e ne propone al governo la reintegrazione. L’indomani Andreotti scrive sulla sua agenda che ha portato il decreto alla firma del capo dello Stato, Sandro Pertini. «A evitare polemiche con il palazzo di giustizia, Pertini telefona direttamente al giudice Alibrandi, che ne è compiaciuto».
Per Turone si tratta di una mossa astuta: avalla la richiesta della Banca d’Italia, ma fa salvo il superiore potere giudiziario. E si fa scudo del presidente della Repubblica per rassicurare i magistrati. Il clima intimidatorio non cessa, tanto che gli economisti che hanno firmato il manifesto pro Banca d’Italia vengono convocati (a quale titolo?) a palazzo di giustizia e «maltrattati», scrive Baffi. Sempre più provato, il 25 aprile il governatore scrive ad Andreotti «su consiglio degli avvocati», accettando di sollevare Sarcinelli dai compiti di vigilanza bancaria. È la resa. Non già a una decisione giudiziaria, sostiene Turone, ma «a un potere oscuro, ambiguo e soverchiante, non a caso rappresentato da Andreotti», riparato dietro un’iniziativa che «di giudiziario ha solo una turpe parvenza».
Andreotti registra la resa di Baffi il 28 aprile: «Il governatore mi propone di scrivere una lettera al giudice istruttore Alibrandi per chiedergli di revocare la sospensione da lui disposta per Sarcinelli. Baffi mi prega di aggiungere che al dottor Sarcinelli, qualora riammesso in servizio, sarebbe affidato un settore diverso da quello cui si collega l’indagine. Aderisco senz’altro». Dunque il presidente del Consiglio propone al magistrato inquirente un «patteggiamento» per l’indagato Sarcinelli: via la misura cautelare in cambio della rimozione dall’incarico di vigilare sulle banche. Iniziativa «sintomatica - scrive Turone - di quanto anomala, oscura e deviante sia la vicenda apparentemente giudiziaria».
Il giudice aderisce all’offerta, citando espressamente nel provvedimento il deciso intervento del presidente del Consiglio e sottolineando «l’autolimitazione del governatore Baffi». Andreotti annota il risultato conseguito. Nei suoi diari destinati alla pubblicazione la vicenda scompare. Nell’agenda privata no. A colpire Turone sono due incontri «piuttosto riservati», il 17 giugno e il 24 dicembre (una domenica e la vigilia di Natale) tra Andreotti e lo stesso giudice Alibrandi.
Andreotti, interrogato sul punto dal giudice perugino Sergio Materia nel 1995, attribuisce i due appuntamenti a una precisa richiesta di intercessione da parte di Baffi, per «ammorbidire» il giudice istruttore. «Ricostruzione inattendibile e implausibile» quanto al primo incontro, obietta Turone incrociando minuziosamente date e circostanze contenute nei diari di Baffi. Addirittura inverosimile quanto al secondo, avvenuto quando Baffi era un pensionato, avendo lasciato da quattro mesi la Banca d’Italia.
Su quegli incontri nessun serio accertamento giudiziario sarà mai svolto. Che cosa si dicevano in privato il presidente del Consiglio e il giudice che indagava sulla Banca d’Italia resta uno dei tanti tasselli mancanti in quello che Turone definisce «il triennio maledetto della nostra storia».