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 2019  gennaio 16 Mercoledì calendario

Dalla piccola glaciazione il mondo postmoderno

C’è da augurarsi che, spinti dalla stagione e favoriti dal tempo di festa, molti fra voi si siano fatti il regalo di leggere quel prezioso miracolo d’intelligenza e di eleganza che è il saggio Inverno di Alessandro Vanoli (Il Mulino, pagine 224, euro 15,00). Chi lo ha fatto, sarà adesso senza dubbio attratto dalla lettura di un libro a sua volta intelligente ed elegante: Il primo inverno. La piccola era glaciale e l’inizio della modernità europea (1570-1700)(Marsilio, pagine 286, euro 18,00) di Philipp Blomm. Vero è che l’editore, il veneziano Marsilio, è troppo raffinato per non costruire in termini affascinanti la sua trappola: «L’affresco di ghiaccio del lungo inverno europeo si rivela il pretesto per rileggere la storia da una prospettiva inedita», recita la bandella del libro che reca, sulla copertina, un particolare del ben noto Paesaggio invernale con pattinatori dipinto verso il 1608 da Hendrick Avercamp e custodito nel Rijksmuseum di Amsterdam. Ebbene: non è che si tratti proprio di una “prospettiva inedita”, per quanto possa sembrarlo a gran parte di un pubblico magari colto, ma in generale estraneo alle letture storiche un po’ più specialistiche. In realtà, la storia del clima è ormai un “sottogenere” storiografico ormai solidamente affermato da parecchi decenni e che ha dato luogo anche a veri e propri best sellers la diffusione dei quali è andata molto al di là della cerchia degli specialisti: ci limitiamo a citare Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall’Anno Mille di Emmanuel Le Roy Ladurie ( Torino, Einaudi, 1982; l’originale francese è del 1967) e Storia culturale del clima. Dall’era glaciale al riscaldamento globale di Wolfgang Behringer ( Torino, Bollati Boringhieri, 2014; l’originale tedesco era già arrivato alla quinta edizione nel 2010). Si tratta di due opere fondamentali alle quali Blom largamente s’ispira e che appunto cita anche nella sua strepitosa bibliografia di ben diciassette pagine.
Non c’è dubbio che, affrontando questo libro, il lettore italiano sarà subito còlto da un che di sconforto e di disagio, se non addirittura da una specie di senso di colpa. La cultura dominante del nostro paese, troppo a lungo condizionata – specie nelle scuole e nei manuali scolastici – da un primato della storia politica e diplomatica dal quale si può dire che solo le ultime due generazioni si siano andate liberando, ha imposto fra Otto e Novecento un modello interpretativo secondo il quale il grande Seicento (il Grand Siècledei francesi, il Siglo de Oro degli spagnoli) è stato solo un secolo di decadenza, di miseria, di sciagure – la peste del 1630, la “Guerra dei Trent’Anni” –, di bigottismo religioso, di vuota retorica letteraria e di pesanti gusti artistici (il da troppi detestato “barocco”), di tirannia e di “servitù” politica (le “preponderanze straniere”): forse appena rischiarato, qua e là, da qualche scoperta scientifica e da qualche invenzione scenica e musicale. Nella prima metà del secolo scorso la detestabile dittatura filosofica e intellettuale di Benedetto Croce ha al riguardo fatto più male della grandine. E per troppo tempo il nostro provincialismo culturale ci ha impedito di mettere il naso fuori dai confini della penisola (o di spingerlo un po’ più a fondo anche al di dentro di essi) per apprezzare quanto di grande ha regalato al mondo il secolo di Pascal, di Racine, di Corneille, di Cyrano de Bergerac, di Góngora, di Spinoza, di Newton: che peraltro fu anche quello di Galileo.
Eppure quel secolo straordinario fu anche – e questo la nostra pur stereotipa visione storica ce lo aveva del resto in effetti insegnato – un tempo di grandi sciagure come la peste poi immortalata dal capolavoro di Alessandro Manzoni –, di fame, di generale impoverimento e di miseria. Blom ci parla proprio di ciò, dimostrando (o richiamando) come un raffreddamento climatico intervenuto in tutto l’emisfero boreale a partire dall’ultimo terzo del Cinquecento sino ai primi del Settecento, quel fenomeno appunto ben noto come “piccola era glaciale” (con una temperatura precipitata mediamente di 3-5 gradi) ebbe l’effetto di condizionare in maniera straordinaria la vita europea di quel tempo. Solo che, rovesciando la nostra abituale prospettiva e servendosi largamente a tale scopo anche delle fonti artistiche e let- terarie, egli sostiene che appunto la contingenza climatica fu promotrice e protagonista di un’autentica rivoluzione culturale che spalancò le porte alla Modernità. La teologia e la filosofia si sciolsero dal primato religioso che le condizionava, la medicina e le scienze abbandonarono l’esegesi delle antiche
auctoritatesper scoprire gli orizzonti dell’esperienza e dell’esperimento, la necessità di rimediare alle continue cattive annate agricole determinate dal rigido clima dette impulso sia al commercio d’importazione, sia all’incremento dei consumi, sia alle tecniche di allevamento, di “colture in serra”, di conservazione dei cibi; la stessa “rivoluzione industriale” ha radici nella “rivoluzione climatica” che la precedette.
L’argomentazione del non ancor cinquantenne Philipp Blomm – storico e pubblicista amburghese nato nel 1970, che si è formato a Vienna e a Oxford – è tanto agile quanto abile: e sa mettere ben a frutto la tecnica dell’uso delle “fonti incrociate”, servendosi delle cronache, delle opere letterarie e filosofiche, delle fonti iconiche, della trattatistica tecnica e scientifica. Il punto è tuttavia ch’egli pone le sue cognizioni storiche e le sue risorse intellettuali al servizio di una tesi rigidamente deterministica (quella del repentino mutamento climatico come origine se non causa prima e unica d’un generale mutamento epocale) e di un escamotage strategico (quella del silenzio o della sottovalutazione di quanto il periodo da lui studiato dovette in termini di novità agli almeno due secoli che lo avevano preceduto). In realtà, il raffreddamento continentale era già cominciato da tempo: e addirittura dalla fine del XIII secolo e dai primi del successivo si era fatto sentire, con tutte le conseguenze che perdurarono in realtà sin addentro al Settecento per risalire poi gradualmente – secondo una curva sinusoidale periodica ben nota – fino all’optimum attuale, un periodo di riscaldamento peraltro aggravato, come sappiamo, dalle conseguenze di un progresso tecnologico- produttivo purtroppo mal gestito. Allo stesso modo, la “liberazione” della filosofia e della scienza dall’egemonia teologica – quello che insomma definiamo di solito il “processo di secolarizzazione”, elemento fondamentale e primario della Modernità – si deve già all’umanesimo e quindi alla Riforma (non solo protestante, ma anche cattolica); e, quanto al commercio e al meccanismo circolare delle invenzioni e delle scoperte, esso si era avviato già vorticosamente fino dal XV secolo, con alcuni precedenti tecnici illustri (l’introduzione dei numeri arabi e il correlato rinnovo delle scienze matematiche e computistiche, il rinnovamento delle tecniche bancarie e creditizie, le innovazioni nelle tecniche nautiche e cartografiche, l’avvìo delle esplorazioni tanto continentali quanto oceaniche). Insomma, un “secolo lungo”, questo dal 1570 al 1700. Un Grande Secolo dominato da un Grande Freddo che recò disagi e sofferenze ma che fu altresì foriero di straordinari progressi. Possiamo definirlo come centrale della Modernità: i caratteri originali e fondamentali della quale furono – e restano – il pensiero antropocentrico e individualistico, il primato dell’Occidente nonché dell’economia e del progresso scientificotecnologico; e altresì, non dimentichiamolo, l’organizzazione della raccolta e del rastrellamento sistematico delle ricchezze e delle risorse di ben quattro continenti al servizio della crescita, del potenziamento e dell’arricchimento di quello europeo. Se dimentichiamo tutto ciò, l’autentica natura e la sostanziale importanza di quella “Modernità” della quale di continuo si parla ci sfuggono. E ci sfugge anche il senso dei mutamenti anche vorticosi e purtroppo dolorosi della nostra epoca, che sarà probabilmente ricordata in futuro come il tempo nel quale il processo avviato non già nel Seicento, bensì fra pieno Trecento e primi del Cinquecento, si concluse per dal luogo a un mondo diverso: quello che per il momento definiamo, provvisoriamente, il “postmoderno”.