16 gennaio 2019
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Biografia di Michelle Obama
Michelle Obama (nata Michelle LaVaughn Robinson), nata a Chicago il 17 gennaio 1964 (55 anni). Avvocato. Ex first lady degli Stati Uniti (2009-2017), in quanto moglie dell’ex presidente Barack Obama. «Odio parlare dopo di lei. È così brava. Che fortuna che ho, ad essere sposato a Michelle Obama» (Barack Obama) • Tra i suoi avi, due schiavi neri, il trisavolo paterno Jim Robinson e la quartavola materna Melvinia Shields, e uno schiavista bianco, individuato da indagini giornalistiche e genetiche in Charles Marion Shields, figlio del padrone di Melvinia, da cui ebbe quattro figli, il primo dei quali fu Dolphus T. Shields, trisavolo materno di Michelle Obama. «Melvinia, […] secondo le ricerche, quando ha circa 15 anni è messa incinta dal ventenne Charles. Sulla relazione ci sono due versioni. Alcuni pensano che sia stata vittima di uno stupro. I padroni bianchi – ricordano le testimonianze – “si divertivano con le schiave”. La teoria della violenza è respinta da altri membri della famiglia, che parlano di un legame affettivo. Di sicuro, non poteva essere reso pubblico» (Guido Olimpio) • Famiglia di umili condizioni. «Mio padre lavorava come operatore presso l’acquedotto pubblico cittadino, e gli fu diagnosticata la sclerosi multipla quando mio fratello e io eravamo piccoli. Anche se ero solo una ragazzina, so che ci sono stati dei giorni nei quali soffriva terribilmente; so che ci sono stati tantissimi giorni nei quali il solo alzarsi dal letto rappresentava una vera e propria battaglia. […] Tuttavia, nonostante questi problemi, mio padre ha perso raramente un giorno di lavoro. Lui e mia madre erano determinati a dare a me e a mio fratello il tipo di educazione che loro avevano solo potuto sognare». «Da bambina, le mie aspirazioni erano semplici. Volevo un cane. Volevo una casa con la scala interna, due piani per una famiglia. Volevo, per qualche motivo, una station wagon a cinque porte invece della Buick a due che rappresentava l’orgoglio e la gioia di mio padre. Dicevo che da grande avrei fatto la pediatra. Perché? Perché mi piaceva avere a che fare con i bambini, e imparai presto che agli adulti faceva piacere sentirselo dire. “Oh, il medico! Che bella scelta!”. A quei tempi portavo le treccine, comandavo a bacchetta mio fratello maggiore e riuscivo, sempre e comunque, a prendere il massimo dei voti a scuola. Ero ambiziosa, anche se non sapevo esattamente quali fossero i miei obiettivi». «“Negli anni ’70 ci siamo trasferiti a vivere con la mia prozia, in un piccolo appartamento sopra casa sua. Era un’insegnante, mentre mio zio era un addetto ai vagoni letto, e insieme erano riusciti a comperarsi una casa situata in una comunità prevalentemente bianca. Il nostro appartamento era talmente minuscolo che il soggiorno era stato diviso per ricavare tre ‘camere’. Nella mia camera e in quella di mio fratello c’era soltanto il letto e un pannello di legno come divisorio: in mancanza di una vera parete, era facile parlarci da una parte all’altra. E potevamo anche tirarci le calze sopra il pannello. […] La nostra era una vita semplice, ma anche piena. Se facevi bene qualcosa, era perché volevi farlo tu. E il massimo della ricompensa era una pizza, o un gelato. Quando ci siamo trasferiti, il quartiere era abitato soprattutto da bianchi, mentre quando ho iniziato le superiori eravamo per lo più afroamericani. E a quel punto si cominciavano ad avvertire gli effetti all’interno della comunità e a scuola”. […] Dici che i vostri genitori hanno investito su di voi. Non si sono comperati una casa, non andavano mai in vacanza. “Hanno investito tutto su di noi. Mia madre non andava mai dal parrucchiere, e non si comperava mai nulla. Mio padre faceva i turni. Vedevo benissimo i sacrifici che facevano”. Dopo le superiori, sei andata a Princeton, poi alla Harvard Law School e infine in un prestigioso studio legale di Chicago. Eppure scrivi: “Odiavo fare l’avvocato. Volevo una vita, sostanzialmente. Volevo sentirmi completa”. […] “La mia è la storia di tanti ragazzi ambiziosi: il viaggio delle caselle da barrare. Prendere bei voti a scuola: fatto. Presentare domanda nelle migliori università, entrare a Princeton: fatto. Una volta lì, scegliere il corso di laurea più adatto per avere buoni voti e poter accedere alla migliore Law School del Paese: fatto. Non ero fatta per andare controcorrente. Non ero disposta ad assumermi dei rischi. Mi sono ridotta a essere quello che pensavo di dover essere. Sono state le sconfitte nella vita a farmi riflettere. Ti è mai capitato di fermarti a pensare a chi avresti voluto essere? Io non l’avevo mai fatto. Me ne stavo seduta nel mio ufficio, al 47° piano, riesaminando i casi che mi venivano affidati. […] E poi un giorno ho conosciuto Barack Obama, al quale non importava nulla di barrare le caselle giuste. Anzi, lui amava andare controcorrente”» (Oprah Winfrey). «"Un buon pupillo per l’estate", nulla più. Questo pensò Michelle Obama del […] nuovo tirocinante del suo studio legale, lo studente della Law School di Harvard di nome Barack Obama, […] nel giorno in cui si conobbero. […] Barack aveva tre anni più di Michelle, ma il percorso di lui era stato "uno zigzag improvvisato attraverso mondi diversi". Michelle invece era più avanti negli studi e lavorava da tempo nella società di rappresentanze legali Sidley Austin di Chicago. Per questo Michelle sarebbe stata la tutor di Barack durante lo stage estivo. Il primo giorno di lavoro, il neo-stagista fece due errori. Il primo: arrivò in ritardo. "Una cosa che mi faceva infuriare", racconta Michelle: "la consideravo un inequivocabile segno di arroganza". E poi, al termine del pranzo nel lussuoso ristorante al primo piano del grattacielo in cui si trovava l’ufficio, si accese una sigaretta. "Una cosa orribile, un gesto che sarebbe stato di per sé sufficiente a smorzare qualsiasi mio interesse, se ne avessi avuto uno". Ma il fascino di Barack cominciò da subito ad ammaliare la futura first lady: "Si diceva che fosse uno studente eccezionale. Sorrise impacciato e si scusò del ritardo mentre mi stringeva la mano: se sapeva di arrivare con la reputazione del fenomeno, non lo dava a vedere". Michelle era già stata colpita dalla sua voce, durante il primo colloquio telefonico: "Era ricca, baritonale, persino sexy. Mi aveva fatto piacevolmente trasalire". Poi furono i racconti di Barack a fare breccia: "Era la prima persona che avevo incontrato da Sidley ad aver trascorso un po’ di tempo nei negozi dei barbieri, nei ristoranti popolari e nelle parrocchie dei predicatori neri nella parte più meridionale del South Side". E infine la personalità del nuovo arrivato: "Barack era serio senza prendersi sul serio. Aveva modi disinvolti, ma rivelava un’insolita potenza di pensiero". Michelle, donna in carriera disposta a tutto per affermarsi nel mondo degli studi legali, fu impressionata dal suo carattere. "Ciò che mi colpì fu la sua sicurezza riguardo alla direzione che avrebbe preso la sua vita. Era stranamente privo di dubbi, sebbene, a prima vista, fosse difficile capire perché". Quel ragazzo "ibrido in tutti i sensi, figlio di un padre nero, keniano, e di una madre bianca originaria del Kansas, nato e cresciuto a Honolulu ma che aveva trascorso quattro anni della sua infanzia a far volare aquiloni e cacciare grilli in Indonesia" la affascinò. Ma al termine del primo incontro, soprattutto dopo la sigaretta, Michelle era convinta: "Nemmeno una volta pensai a lui come a uno con cui mi sarebbe piaciuto uscire. Innanzitutto, ero il suo tutor nello studio. In secondo luogo, avevo appena giurato a me stessa che non sarei uscita più con nessuno: ero troppo logorata dal lavoro per dedicare anche uno sforzo minimo a una storia". E invece…» (Gioele Anni). «Barack è bello, simpatico, con una retorica straordinaria e un intelligente umorismo. Al primo appuntamento la porta a vedere Do the Right Thing, l’opera prima di un nuovo regista indipendente nero chiamato Spike Lee; e qualche giorno dopo le chiede di seguirlo in una chiesa di Chicago dove aveva lavorato in aiuto della comunità di quartiere. Quella sera Michelle si innamora del futuro presidente. “Ha pronunciato parole che sono rimaste con me per sempre – ha ricordato nel suo discorso alla convention democratica del 2008 –. Ha parlato del mondo come è e come dovrebbe essere, e del fatto che spesso accettiamo la distanza tra i due e prendiamo la realtà per quella che è anche se non riflette i nostri valori e le nostre aspirazioni”. Quell’appassionato laureato in legge voleva cambiare le cose sul serio. Non mascherava la sua ambizione politica, al punto che una sera confessò all’inquisitorio fratello di Michelle che magari un giorno sarebbe diventato presidente, sì, il primo presidente nero degli Stati Uniti d’America. Una mossa audace, considerando che i politici non erano amati nella famiglia Robinson, ma venivano percepiti piuttosto come i garanti delle ingiustizie del passato. Eppure Michelle gli crede: non riuscirà mai a farla appassionare alla politica di palazzo, ma la porta fuori dallo studio Sidley Austin per iniziare, insieme, un percorso tra la gente. Barack sceglie un piccolo studio che si occupa di diritti civili e che gli permette di concentrarsi, fuori dal lavoro, sul sistema di voto che discrimina gli afroamericani poveri, mentre Michelle diventa assistente del sindaco di Chicago Richard Daley per uno stipendio di 60 mila dollari all’anno, quasi quattro volte inferiore a quello che percepiva da avvocato. […] Ispirati e decisamente più poveri, Michelle e Barack si sposano (superando le iniziali resistenze del futuro presidente, figlio di una madre single, contrario ideologicamente al matrimonio) nel 1992 nella chiesa della Trinità Unita di Chicago con la benedizione di Jeremiah Wright, il reverendo afroamericano che finirà al centro di molte polemiche per le sue visioni radicali. La futura moglie sceglie come luogo del ricevimento quel South Shore Country Club che fino all’inizio degli anni Settanta vietava l’ingresso ai neri. Negli anni successivi alle nozze, Michelle – che dall’ufficio del sindaco passa ad avere ruoli di sempre maggiore responsabilità civica ed educativa prima nell’amministrazione cittadina e poi all’Università di Chicago – diventa il pilastro economico della famiglia. Si racconta che nel 2000 Barack Obama avesse esaurito il conto in banca per fare campagna per l’elezione al Congresso e, giunto a Los Angeles per la convention democratica, non avrebbe potuto né affittare l’automobile né comprare l’ingresso all’evento senza l’intervento repentino di Michelle. È stata lei a permettergli di dare forma alla sua carriera politica senza mai perdere di vista i doveri famigliari» (Serena Danna). «Quando nell’agosto del 2007 decide – nonostante le perplessità degli esperti che la vedono “arrabbiata”, “non convenzionale”, “abrasiva” – di saltare sul treno della campagna del marito, il suo motore non è l’audacia e la speranza, le due parole d’ordine di Barack, ma la paura: “La paura di perdere, di essere feriti, che sarebbe stato brutto e che la lotta avrebbe distrutto la nostra famiglia”. Il 4 novembre 2008 Barack Obama diventa presidente degli Stati Uniti, ma per Michelle l’epilogo felice è soprattutto l’inizio di nuove difficoltà. “Ero onorata ed eccitata di essere la first lady, ma neanche per un secondo ho pensato che stessi scivolando in un ruolo facile e glamour. Nessuno che abbia nel nome le parole ‘first’ e ‘black’ potrebbe mai”. È nei mesi successivi all’insediamento che per lei si realizza il passaggio “da essere eletta donna più potente del mondo all’essere messa continuamente sotto accusa in quanto donna nera arrabbiata”» (Danna). «Molti si attendevano che Michelle avrebbe dato un’interpretazione politica al suo ruolo di first lady; che sarebbe stata una nuova Hillary Clinton. È stata invece il contrario. “La mia priorità? La crescita delle mie figlie”. Così, finché Malia e Sasha non si sono ambientate nella capitale, lei ha evitato di impegnarsi in pubbliche campagne. Contraria alla guerra in Iraq? Certo, ma una delle sue prime iniziative è stata quella di incontrare le famiglie dei veterani delle guerre iniziate da George W. Bush. Poi è arrivato l’orto della Casa Bianca, la campagna per l’alimentazione corretta e Let’s Move [la campagna salutistica per incentivare l’attività fisica e sportiva, soprattutto tra bambini e ragazzi – ndr]» (Michele Zurleni). «The Obamas, il libro della giornalista Jodi Kantor, […] racconta la storia di uno staff presidenziale diviso e a volte maldestro, spesso in conflitto con la first lady, soprattutto nei primi due anni della presidenza Obama. Ma, soprattutto, il saggio ritrae una Michelle dalla personalità fortissima, sempre in bilico tra i suoi istinti materni – al punto di pensare di non trasferirsi alla Casa Bianca nel gennaio 2009, dopo il giuramento di Barack, per restare a Chicago con le figlie fino alla fine dell’anno scolastico, progetto poi rientrato – e la tentazione di entrare “a gamba tesa” nell’attività della West Wing, l’ala degli uffici governativi della Casa Bianca. Non per interferire nelle scelte politiche del presidente, ma con l’idea di proteggerlo dal cinismo di un team che le sembrava disposto a ogni compromesso, anche sui princìpi, pur di vincere una battaglia tattica» (Massimo Gaggi). «Non è una first lady militante perché non ne ha bisogno: le sue campagne – contro l’obesità infantile, per esempio – sono tecnicamente apolitiche, ma le hanno comunque attirato dure critiche dai repubblicani. […] È la prima first lady dopo Eleanor Roosevelt ad aver creato un orto (biologico) nel grande giardino della Casa Bianca, ma la sua – scientificamente motivata – avversione per il fast food resta un bersaglio politico con il quale i suoi avversari “scaldano” la base. […] Michelle non prende mai posizione prima del marito: soltanto nel 2012 lui diede l’appoggio ai matrimoni gay, tema a lei molto caro da tempo ma sul quale era sempre stata attenta a non scavalcarlo a sinistra. Proprio questo pericolo, di superarlo mettendolo politicamente in difficoltà, è stato da una parte un freno per Michelle, ma dall’altra la sua fortuna. Libera di fare ospitate nazional-popolari ma efficacissime in tv da Oprah Winfrey e Ellen DeGeneres, di accogliere alla Casa Bianca per interviste esclusive siti internet popolarissimi ma non esattamente giornalistici (come iVillage), di amplificare così, per esempio, la campagna del marito per l’espansione dell’assistenza sanitaria parlando, per l’appunto, di prevenzione dell’obesità, delle malattie cardiovascolari e del diabete. È difficile immaginare che lui sarebbe stato più efficace di lei nell’appello per le bambine nigeriane rapite da Boko Haram: tutto il mondo ha visto la foto twittata da Michelle, senza “comment”. La first lady con un’espressione di tristezza infinita sul volto e un cartello tra le mani con un semplice hashtag: #BringBackOurGirls» (Matteo Persivale). «Uno dice Michelle Obama e si trova davanti agli occhi gli ortaggi della Casa Bianca, le campagne per combattere l’obesità praticamente nella culla, le scenate serali a quell’ex fumatore di suo marito, costretto a smettere per amore della pace famigliare (in casa c’è pure la suocera, maggioranza schiacciante), e altre battaglie contro i lipidi. Ma, […] nel tempo, è diventata anche una fantastica oratrice – seguendo le orme del marito –, ottima “surrogate” da campagna elettorale, moglie perfetta in società ma non di quelle che scompaiono dietro alla sagoma presidenziale: Michelle conquista tutti a suon di abbracci, mette una mano sulla spalla alla regina d’Inghilterra, dimostra tutto il disprezzo non verbale di cui è capace quando il marito si fa dei selfie al funerale di Mandela con un avvenente primo ministro scandinavo donna» (Mattia Ferraresi). Molto attiva nel sostenere Hillary Clinton nella campagna per le elezioni presidenziali del 2016 – tra i passaggi dei suoi discorsi che destarono maggior sensazione: «Questa è la storia del nostro paese, la storia che ha portato anche me su questo palco stasera, la storia di una generazione di persone che hanno sperimentato le frustate della schiavitù, la vergogna della servitù, la macchia della segregazione, ma che hanno continuato a resistere e a sperare e a fare quel che era necessario. Così io mi sveglio ogni mattina in una casa che è stata costruita dagli schiavi, e guardo le mie figlie, due giovani donne nere, belle, intelligenti, che giocano con i cani nel giardino della Casa Bianca. E grazie a Hillary le mie figlie e tutti i nostri figli oggi possono dare per scontato il fatto che una donna entri alla Casa Bianca» –, stigmatizzando al contempo Donald Trump soprattutto per il suo ostentato disprezzo verso le donne, in seguito al risultato elettorale è stata indicata da numerosi commentatori come possibile sfidante democratica di Trump alle elezioni del 2020. «Michelle […] ha sempre avuto un alto tasso di approvazione, tra il 65 e il 70%, negli anni alla Casa Bianca. Ecco perché aumentano le pressioni per convincerla a lanciarsi nella corsa per le presidenziali del 2020. Michelle, finora, ha respinto le ipotesi. […] Vedremo. Intanto in Becoming [la sua autobiografia, uscita nel novembre 2018 anche in Italia, presso Garzanti, con il titolo Becoming. La mia storia – ndr], giudica con asprezza il percorso di Trump» (Giuseppe Sarcina). «Perché l’ex first lady ha sentito il bisogno di scrivere questa autobiografia? E perché questa autobiografia, cui s’immagina abbiano lavorato esperti di comunicazione, è scritta secondo i canoni della narrazione politica e della dittatura della virtù? […] E come mai Michelle continua a dirsi stupita che tante donne abbiano votato per un candidato misogino contro una donna preparata? Michelle nega di volersi candidare, dice di non essere mai stata una fan della politica e di essere disgustata dalle campagne elettorali. E se si facesse candidare?» (Aldo Grasso) • Principale autrice dei discorsi pronunciati da Michelle Obama tra il 2008 e il 2017, così come di quelli pronunciati da Hillary Clinton per la campagna presidenziale del 2008, è in realtà Sarah Hurwitz: «Lei mi dice “questi sono i miei valori, ed è questo di cui voglio parlare”, e io ci lavoro sopra» • In Becoming Michelle Obama ha raccontato anche di un aborto spontaneo. «“Vent’anni fa mi sono sentita sola e perduta”. Michelle e Barack volevano dei figli, “ma le cose non andavano bene”, fino a quando “un test di gravidanza risultò positivo: dimenticammo tutte le preoccupazioni, pazzi di gioia. Ma un paio di settimane dopo ho avuto un aborto spontaneo. Stavo male fisicamente, e tutti e due avevamo perso il nostro ottimismo. Mi sentivo come se avessi fallito perché non sapevo quanto fossero comuni gli aborti spontanei… Eravamo come intrappolati dal nostro dolore, pensando che, in un certo senso, eravamo perduti”. Vengono fuori l’intesa, la complicità e la capacità di reazione della coppia (ma Michelle racconta con candore anche i loro alti e bassi e il ricorso alla consulenza matrimoniale). “Barack mi lasciò gestire in piena autonomia il mio sistema riproduttivo” Alla fine lei decise di ricorrere alla fecondazione in vitro, grazie alla quale nacquero Malia, oggi 20 anni, e poi Sasha, 17» (Sarcina) • Da first lady, parafrasando il titolo presidenziale di «Commander in Chief» («comandante in capo»), rivendicò spesso per sé quello di «Mom in Chief» («mamma in capo») • «Non ha paura Michelle di definirsi ossessionata dal controllo, etichetta confermata da tutti i collaboratori di Barack, e che valse all’ex presidente il fastidioso epiteto di “Obambi”, coniato dalla commentatrice Maureen Dowd per l’uomo più potente d’America “comandato a bacchetta dalla moglie”. Anche qui l’aneddotica si spreca: Michelle che alla convention democratica del 2004 blocca il marito un attimo prima di salire sul palco per dirgli “Cerca solo di non rovinare tutto, buddy”. O quando, fresco dell’elezione al Senato, Obama chiama la moglie per raccontarle il successo di una legge firmata con un repubblicano e lei risponde: “Abbiamo le formiche in casa: le ho trovate nella cucina e nel bagno di sopra. Prima di qualsiasi altra cosa, compra il disinfestante”. Eppure, sono in tanti a pensare che senza il rigore e la rigidità di Michelle le cose sarebbero andate diversamente. Se, da un lato, le uscite della first lady sulle abitudini alimentari del marito, l’odore del suo corpo, le sue attività domestiche fanno infuriare la West Wing ed eccitano i perfidi commentatori americani, dall’altro lato, aiutano l’elegante e “freddo” Barack ad avvicinarsi agli elettori. Barack che ripone il pane per non farlo diventare secco o che legge alle sue figlie tutti i libri di Harry Potter (guadagnandosi l’etichetta di “genitore Harry Potter”) avvicinano il principe nero di Washington agli afroamericani del Missouri come alla middle class del Montana» (Danna) • «Obama aveva una meravigliosa storia da raccontare, ed è stato il primo a usare la rete per farlo. Ma non è mai stato in sintonia con l’anima profonda dell’America, che diffida dello Stato, del governo, degli avvocati, degli intellettuali; e Obama è l’ex capo dello Stato e del governo, è avvocato, e ha guadagnato come scrittore 15 volte più che come presidente. Rimarrà nei libri come il primo afroamericano alla Casa Bianca. Ma si è formato con i nonni materni alle Hawaii; non ha praticamente mai conosciuto il padre kenyota, che se ne andò quando lui aveva due anni per poi rivederlo una volta sola; secondo gli stereotipi non del tutto scomparsi pure in un Paese multietnico come gli Stati Uniti, Obama si muove, pensa e parla come un bianco. La vera nera è Michelle. All’inizio la chiamavano “Mrs Grievance”, Signora Rancore. Disse che si era sentita “per la prima volta fiera di essere americana” solo quando il marito aveva vinto le primarie. Dopo l’elezione, a lungo rifiutò un ruolo pubblico. Si dovette insistere perché lasciasse Chicago per la Casa Bianca. Poi però la prese in pugno. Le doti di attrice le consentono di mimetizzare una durezza e un’ambizione con cui si sono scontrati i collaboratori di Obama. Sia Rahm Emanuel, capo dello staff, sia David Gibbs, portavoce, litigarono con la first lady. Entrambi se ne andarono» (Aldo Cazzullo) • «Nella mia vita, finora, sono stata avvocato, dirigente di un ospedale e direttore di un ente no profit che aiuta i giovani a costruirsi una carriera. Sono stata una studentessa nera della working class in un costoso college frequentato in prevalenza da bianchi. Sono stata spesso l’unica donna e l’unica persona afroamericana presente nella stanza, in molte stanze diverse. Sono stata moglie, neomamma stressata, figlia lacerata dal dolore del lutto. E, fino a non molto tempo fa, sono stata la first lady degli Stati Uniti d’America, un lavoro che ufficialmente non è un lavoro, ma che mi ha offerto una tribuna che mai avrei immaginato. Mi ha stimolata e mi ha resa umile, mi ha tirato su il morale e mi ha abbattuta, a volte nella stessa circostanza. Solo ora comincio a elaborare quanto è accaduto in questi ultimi anni, da quando, nel 2006, mio marito cominciò a parlare dell’idea di candidarsi alla presidenza, fino alla fredda mattina di gennaio in cui sono salita su una limousine con Melania Trump per accompagnarla alla cerimonia d’insediamento di suo marito. Un bel viaggio, non c’è che dire».