il Giornale, 16 gennaio 2019
Tutte le folli interviste di William S. Burroughs
Giacca giusta, cravatta, viso affilato e aristocratico, cappello costoso, William S. Burroughs sembrava un Lord. Il Lord della disperazione; il Baronetto del sottosuolo; il Principe della morfina. La letteratura, si sa, nasce dal disastro, dalla morte. E da una leggenda bugiarda. Settembre 1951, Messico. Bisognerebbe scrivere una storia della letteratura sugli scrittori che hanno sentito il bisogno di perdersi in Messico, in quei meandri del delirio, che infernale ubriacatura, ce ne sono un mucchio, da Antonin Artaud a Malcolm Lowry, da Carlo Coccioli a Hart Crane e Cormac McCarthy. Burroughs in delirio lisergico. Piglia la pistola. Mette il flûte in testa alla moglie, Joan Vollmer. 28 anni, viso da bambola. William è più grande di un paio di lustri, ha studiato ad Harvard, rampollo sregolato di una famiglia di ricchi; afferra l’arma, gioca a fare l’eroe, le spara in faccia. «Poi ci fu quel terribile incidente con Joan Vollmer, mia moglie. Avevo un revolver che volevo vendere a un amico. Lo stavo controllando ed è partito un colpo: lei è rimasta uccisa. Qualcuno ha messo in giro la voce che stessi cercando di centrare un bicchiere di champagne sulla sua testa, alla Guglielmo Tell. Una cosa assurda e falsa». Verità, memoria e menzogna sono il fango mistico da cui esala l’esaltante narrativa di Burroughs. Di certo c’è che Joan dà a William un figlio, nel 1947, e che lui, scampando il processo, se ne scappa a casa di Paul Bowles, quello del Tè nel deserto, a Tangeri. Lì, sgangherato dalla colpa, colto nel folto del tremendo, Burroughs scrive il libro di culto, Pasto nudo, l’epos di un Ulisse cocainomane, il regesto visionario di un malato («La Malattia è la tossicodipendenza e io per quindici anni sono stato un tossicomane»), la stagionatura agli inferi di un cervello rimbaudiano in mescalina. Pasto nudo diventò il Corano dei Beat, Burroughs l’Allah dei beatnik, Jack Kerouac il suo profeta. «Jack Kerouac è stato fondamentale nell’alimentare il mio interesse per la scrittura. Tra l’altro, il titolo Pasto nudo si deve a lui: è stato un caso, naturalmente. Continuava a dirmi che dovevo fare lo scrittore, e io gli rispondevo che non sapevo niente di letteratura. Così ho davvero cominciato piuttosto tardi». Raffinato, viziato, vizioso, nessuno ha mai saputo descrivere adeguatamente Burroughs. «Era un Raskol’nikov in cerca di tutte le cose che non si dovrebbero fare. Voleva semplicemente provare tutto», ha detto Allen Ginsberg. Certo. C’è il delitto, l’immolazione nel castigo, la baraonda catartica, l’alchimia della droga.
Nel 1963, a Parigi, prima di intervistarlo, Joseph Barry lo vede così, «Un tizio un po’ curvo, alto circa uno e ottanta; magro; un volto scarno che sembra un misto di Ralph Richardson e Buster Keaton». Insomma, un attore dell’assurdo. Su Village Voice, a declamarne il talento, uscì questa didascalia: «Tossico e assassino formatosi ad Harvard, William S. Burroughs è stato un illustre decano della feccia... In misura maggiore di quanto non lo rendesse possibile la sua leggenda, era anche un uomo dal pensiero complesso, inquietante e visionario, profondamente paranoico e profondamente morale». Lui, teorico della letteratura come sprofondamento nella notte oscura dei sensi e dei pensieri, era più sbrigativo, «sono robaccia e sarò per sempre un drogato».
L’ennesimo paradosso di questo inafferrabile surfer dell’Lsd è che «odiava rilasciare interviste» (così Sylvère Lotringer), solo che il tomo che raccoglie tutte le sue Interviste, stampato da il Saggiatore, una specie di monumento e di monolite, va avanti per 1200 pagine e passa (euro 65). Burroughs stava meglio nel suo mondo immaginario, macerato a dovere dalla coca, più che in quello reale. Lo intervistavano e lui balbettava, eludeva, rispondeva a monosillabi, si perdeva in una amazzonia di metafore. A Londra, nel 1974, il Duca della Beat generation dialoga con il Duca Bianco, David Bowie, e tartaglia, farfuglia, William tratta la superstar come uno scrittore vero («È piuttosto sorprendente che siano testi così complessi, e che possano conquistare un pubblico di massa...»), e Bowie fa spallucce, fa il falso modesto, come di fronte al frontman dei fan («Sono abbastanza sicuro che alla gente che ascolta le mie cose non interessano i testi»).
Dunque, a cosa serve questa mole micidiale di interviste, colloqui, registrazioni (un centinaio)? A fare l’elenco dei rari scrittori che piacciono al guru dei fulminati, ad esempio. Sintesi magnetica: «C’è Joyce. Shakespeare, Rimbaud, alcuni scrittori di cui la gente non ha mai sentito parlare... Genet, naturalmente, ma la sua è una prosa francese classica. Non è un innovatore linguistico. Poi ci sono Kafka, Eliot e Conrad, che è uno dei miei preferiti». Legge con gusto Graham Greene, legge Le Carré («proprio un bravo scrittore»), non gli parlate di 1984 («sembra quasi naïf, alquanto obsoleto»), è lucidamente crudele riguardo a Hemingway («Le nevi del Kilimangiaro penso che sia un grande racconto. Se prendi invece cose come Verdi colline d’Africa e Di là dal fiume e tra gli alberi, la sua immagine ha preso il sopravvento. L’eccesso di immagine è molto pericoloso per uno scrittore»), ama H.G. Wells («mi è sempre sembrato uno dei migliori») e C.S. Lewis («Un altro che mi piace moltissimo. In Quell’orribile forza e Lontano dal pianeta silenzioso ho trovato molte analogie con le mie idee»), offre una fulminante esegesi di Céline: «Mi pare che i fraintendimenti dei critici rispetto alla sua opera siano simili a quelli che investono anche i miei lavori: dicevano che fosse un diario della disperazione ecc. Io la trovavo invece molto divertente. Penso che sia in primo luogo uno scrittore umoristico». Quanto al resto, Burroughs, dal suo Nirvana nitido come un urlo, ha capito, già allora, che la frustrazione è la molla del capitalismo («La celebrazione totale del piacere assoluto significherebbe la fine del sistema. Se davvero fossimo tutti appagati sessualmente, il bisogno di automobili e televisioni diminuirebbe»), disprezza indolentemente i politici («Trovo insulso il loro modo di pensare, così rivolto all’esterno, orientato sull’immagine, sul potere. Mi annoiano; non li odio»), vorrebbe fare la rivoluzione con i Rolling Stones («I Rolling Stones si considerano dei rivoluzionari? Certo che sì, baby. Cercano di aiutare in tutti i modi, e sono dalla nostra parte, completamente»), inaugura un ambientalismo radiosamente radicale («L’uomo è un cattivo animale. Prima distrugge la razza umana, poi gli animali, infine l’ambiente»). Quando gli chiedono che razza di vita selvaggia abbia vissuto, Burroughs, con educazione, blocca chi lo interpella, «La maggior parte del tempo l’ho passata alla macchina da scrivere e non a tenermi impegnato con chissà quali spumeggianti accadimenti», dice. E se uno pensa che William sia un contorto nichilista, mostrificato dal nulla, sbaglia, «Se non fossi sorpreso della tua vita, non saresti vivo. La vita è una sorpresa!», grida. Così il decano degli sballati decanta l’esistenza, compila il suo folle inno all’ottimismo.