il Giornale, 15 gennaio 2019
Misteri, codici e follie: le biblioteche salveranno il mondo
Aleksandr Puskin morì fra atroci tormenti a 37 anni, nel 1837, colpito da una pallottola al basso ventre. Agonizzò due giorni. Le sue ultime parole (troppo belle per metterle in dubbio), indicando i libri sugli scaffali della camera, sono: «Addio amici». Francesco Petrarca lasciò il mondo nella sua biblioteca d’Arquà, nel 1374: fu trovato con la testa reclinata su un codice aperto. E pare che anche Platone sia spirato in maniera analoga. E Andreas Wilhelm Cramer, bibliotecario capo a Kiel, in Germania, quando negli anni Venti dell’800 visitò la preziosa collezione di San Gallo, una delle più belle della storia dell’Europa, scrisse nel suo diario: «Non sarebbe male essere sepolti in una biblioteca simile».
Il Paradiso (per i bibliofili), l’inferno delle fiamme che le hanno divorate nel corso dei secoli, una location perfetta per tanti romanzi (ovviamente Il nome della rosa, o il Cimitero dei Libri Dimenticati nel bestseller L’ombra del vento di Carlos Ruiz Zafón, ma anche moltissimi titoli fantasy e di fantascienza) e per film (perfetta in Interstellar la metafora borgesiana di una biblioteca infinita ed eterna per risolvere il problema di come rappresentare uno spaziotempo illimitato sullo schermo cinematografico), il tentativo di imporre l’ordine in un mondo caotico (quella di disporre i libri è una scienza), simbolo di potere (dai re mesopotamici ai presidenti Usa) o di prestigio (gli «squali» del capitalismo americano ottocentesco), luoghi di istruzione e poche volte di conforto (ma perché non esistono biblioteche postmoderne belle come certi musei delle archistar, con caffetterie, terrazze, bar all’aperto?), fonti di nutrimento per lo spirito umano (si dice) e per qualcuno meri depositi di innumerevoli libri (costosi e poco utili: «Tanto ormai c’è Internet...»). Ma cos’è davvero una biblioteca?
Oggi dovrebbe essere un’istituzione che offrendo immediato accesso ai libri incoraggia la mobilità sociale, permettendo a tutti di studiare, aggiornarsi, formarsi. Invece di fatto le biblioteche sono cattedrali del sapere su fondamenta di carta velina, prese nel gorgo della riduzione dei fondi, del costante calo di utenti, dell’abbassamento qualitativo dei servizi... Le biblioteche pubbliche sono in crisi, quelle private nascoste. Ma sono ancora qui. E hanno cinquemila anni, da quando in Mesopotamia qualcuno organizzò il primo deposito per archiviare decine di migliaia di tavolette d’argilla, disposte con cura su scaffali e ripiani, e ricoperte di segni. Cinquemila anni. Quando, dopo la domesticazione dei cavalli, la coltivazione del peperoncino, la fermentazione della birra, l’uomo cominciò a scrivere. E a leggere. E a preservare l’una e l’altra attività. Si chiama Conoscenza.
Si intitola La biblioteca (Mondadori, pagg. 312, euro 22), è un imponente saggio scritto dall’australiano Stuart Kells – storico del libro, bibliofilo ed esperto di libri rari – e come indica il sottotitolo è «Un catalogo di meraviglie». Un libro sui libri che tra storie incredibili di biblioteche, dagli aborigeni al futuro, bibliofili psicologicamente disturbati, micidiali ladri di libri, saccheggi, aste folli e tesori di carta – ci insegna due cose, di fondo. La prima è che le biblioteche restano, anche se improduttive, l’unico baluardo materiale all’ignoranza di massa assurta da tempo a motivo di vanto. La seconda è che il libro, un oggetto la cui perfezione supera qualsiasi innovazione digitale, nel suo essere elemento di trasmissione del Sapere e di memoria della Storia, coincide esattamente con la civiltà. Che inizia con la scrittura e finirà con l’ultimo uomo in grado di leggere. Prima e dopo, resta solo un buio indistinto senza spazio e senza tempo.
In mezzo, invece, c’è un vero catalogo di aneddoti, avvenimenti, passioni, follie, crimini e miracoli. Questo. Ah, certo, prima di tutto c’è il piacere, ciò che muove desideri, azioni, pensieri. E il piacere dei libri non è per nulla inferiore a quello sessuale (tenendo conto peraltro che un matrimonio costa mediamente più di un’ottima biblioteca). Comunque, Samuel Taylor Coleridge abbracciava i propri libri, Benedetto Croce da giovane, in preda a un’estasi di gioia, baciò le pagine de Le mie prigioni di Silvio Pellico, e la bibliografia in materia è vastissima: si veda Loving Literature di Deidre Shauna Lynch. Un piacere così pericoloso che nel Medioevo i monaci bibliotecari tenevano separati i libri sacri da quelli profani, e ancora nel 1863 un certo galateo comandava ai proprietari di libri di dividere le opere di autori maschi da quelle delle femmine.
Poi, c’è il dovere. Erasmo da Rotterdam aveva idee chiare in merito alle precedenze. «Quando ho un po’ di denaro compro libri, e se me ne avanza, penso al cibo e ai vestiti». Poi, c’è chi esagera. Si tramanda che il filosofo greco Carneade (il quale deve la fama a un libro, e neppure suo) «era così smisuratamente assetato di conoscenza che non trovò mai il tempo né di spuntarsi i capelli né di tagliarsi le unghie». Poi, dopo piacere e dovere, ci sono i sogni. Tutte le grandi biblioteche, a partire da quella leggendaria di Alessandria (che al culmine del suo splendore conteneva, dicunt, mezzo milione di rotoli, secondo alcuni un milione) cosa sono, se non l’atto di fede e il sogno di un popolo? A cui, quasi sempre, segue l’incubo: incendi devastanti, saccheggi, censure, roghi (tra i quali quelli dell’Inquisizione sono una minoranza: prima vengono barbari, rivoluzionari francesi, nazisti, islamici).
E i misteri? Sono infiniti. I più fitti sono quelli che serpeggiano fra gli scaffali (in legno scuro, lunghi 80 chilometri) della Biblioteca Vaticana e del suo archivio, inaccessibile un tempo, oggi molto meno. E fantasie. Come quella che passò nella testa del nobile Odorico Pillone, il quale, in un’epoca in cui i libri venivano disposti sugli scaffali con il dorso verso la parete, e quindi indistinguibili a un semplice sguardo, chiese al pittore Cesare Vecellio (1521-1601) di dipingere sui tagli concavi dei suoi 172 volumi vivaci immagini collegate al contenuto: oggi quei «pezzi» hanno valutazioni folli. Ecco, le follie. Quante ne sono state compiute per un libro o una biblioteca? Il bibliofilo, che di per sé è una figura ibrida, né lettore né scrittore, è sempre caratterizzato come un uomo (quasi mai donna) freddo, ossessivo, narcisista. E disposto a tutto. Poggio Bracciolini, il più grande cacciatore di libri del Rinascimento, era un ladro senza vergogna, pur se coltissimo, o proprio per quello. Reginald Heber, il più formidabile bibliofilo della storia inglese, accumulò centomila volumi che occupavano otto case. Quando morì, nel 1826, l’asta per vendere la sua biblioteca durò 216 giorni. Mentre il conte Guglielmo Libri Carucci dalla Sommaja (1803-69), il più spietato accumulatore e insieme macellaio di libri dell’intera storia del libro, merita un capitolo a sé (è l’XI), a partire dal suo cognome, Libri, appunto. E poi ci sono i biblio-sadici, come Voltaire, che strappava tutte le pagine che non lo interessavano e teneva solo quanto riteneva buono, «così che speso di parecchi volumi ne fece uno solo».
Per il resto, i libri – come disse a suo tempo il primo ministro britannico William Ewart Gladstone – sono «i vincoli e i bulloni di una razza». E non c’è modo migliore per distruggere una cultura, che distruggerne i libri.