Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  gennaio 15 Martedì calendario

Intervista a Mario Botta: «Farei solo chiese»

«Vado a letto presto e mi alzo presto. Dormo otto ore, come i bambini. È un lusso che amo concedermi» confessa Mario Botta. Che la sana abitudine abbia contribuito al successo di questo architetto di fama e attività mondiale? Ticinese, classe 1943, ha lasciato tracce ovunque, ma tutto nasce sempre lì, nello studio di Mendrisio. Progetta strutture forti, dalle geometrie precise, con volumi che s’incastrano gli uni negli altri, forme cilindriche ed ellittiche che si stagliano su impianti rettangolari, archi rampanti o a tutto sesto mossi a contrasto con volumi squadrati, superfici oblique su strutture a base rettangolare. Vedi il Mart di Rovereto, il Moma di San Francisco, il Tam di Pechino, il Teatro alla Scala post 2004. È lunga la serie dei luoghi di culto, in testa la sinagoga di Tel Aviv. «Sa, se potessi, io farei solo chiese», commenta.
Perché?
«Questo tema mi ha permesso più di altri di trovare il senso più profondo del fatto architettonico stesso. Costruire è di per sé un atto sacro, è un’azione che trasforma una condizione di natura in una condizione di cultura».
Oggi quali sono le sfide dell’architettura? 
«Viviamo una complessità che fino a ieri era inimmaginabile, ci misuriamo con una globalizzazione full time, con il nostro cellulare in tasca comunichiamo con il mondo. Quindi le nostre città e il paesaggio devono poter rispondere a una nuova condizione che vede l’umanità comunicare con mondo intero». 
Per questo l’architettura non può agire da sola.
«Sì, perché nel processo progettuale entrano in gioco diversi linguaggi espressivi legati alla biologia, neurologia, logica, matematica. Sono interessi transdisciplinari che stanno ridefinendo il ruolo dell’architettura. Ora noi architetti lavoriamo ai margini delle differenti discipline scientifiche».
Ha detto neurologia?
«Al teatro dell’architettura di Mendrisio abbiamo appena ospitato il neuroscienziato Giacomo Rizzolati».
Qual è la connessione fra il re dei neuroni a specchio e l’architettura?
«Sulla base della scoperta scientifica di Rizzolati abbiamo trattato dell’empatia degli spazi verso il fruitore. Per dire che esiste un mix fra le discipline, l’una si serve dell’altra per spiegare comportamenti. Una volta l’arte del costruire nasceva dalla collaborazione fra impiantista, ingegnere, architetto e muratore. Ora entrano in gioco tante forme espressive e comportamenti».
Dell’essenza dell’architettura cosa rimane?
«L’immagine della forma di vita di una collettività».
Da ragazzo, lasciò la scuola per fare apprendistato in uno studio d’architettura tornando agli studi a 18 anni. Prima la pratica, poi la teoria. Rifarebbe questa scelta? 
«Assolutamente sì. Risposi a un’esigenza pragmatica. E comunque, in quell’epoca, in Svizzera l’architetto era un mestiere, come il falegname per dire, quindi se volevi esercitarlo lo facevi, non avevi bisogno degli ordini professionali». 
A quanti anni il suo primo progetto?
«A 18 anni. Era una casa parrocchiale».
Come fu il rientro a scuola dopo il tuffo nella vita attiva? 
«Avevo la chiara consapevolezza di cosa avessi bisogno. Troppo spesso si crea uno sfasamento fra quanto si studia e le richieste della professione». 
Troppa teoria senza riscontri con la pratica professionale?

«Paradossalmente la formazione più teorica invece di portare a una visione generale del mondo porta ad essere prigionieri dentro un casellario».
I suoi figli lavorano con lei, nello Studio di Mendrisio. Anche loro controcorrente come il padre? 
«Ognuno è figlio del proprio tempo. Loro hanno fatto il tipico percorso dei giovani d’oggi. Due hanno studiato a Losanna, un altro a Mendrisio, poi sono stati negli Usa. È sempre una questione di tempi, l’architettura stessa è espressione del proprio tempo, è lo specchio impetuoso degli accadimenti». 
In questo specchio cosa si sta riflettendo d’impietoso?
«Le periferie urbane». 
E la città? Impietosa anch’essa?
«La città è l’ultimo baluardo, l’ultima forma di resistenza. Io voglio fare l’apologia della città, e in particolare di quella europea. È l’espressione più straordinaria della vita sociale e comunitaria. Nulla s’è dimostrato altrettanto intelligente e flessibile come la città. Noi siamo andati sulla luna ma non abbiamo saputo costruire altri modelli comportamentali paragonabili alla città. È l’ultimo grande patrimonio di valori in cui ci riconosciamo. Quando ci chiedono da dove veniamo, rispondiamo da Milano, Seoul, New York... non diciamo dall’Italia, Corea o Usa. La città porta con sé i valori riconoscibili di un territorio. È un bene costruito in cinquemila anni di storia e ancora oggi è il rifugio ultimo, poco prima dell’abitazione».
Arriviamo così al concetto di abitazione. Cosa è la casa oggi?
«Una sorta di utero materno dove è gradevole tornare dopo una giornata di lavoro. È lo spazio dove riprendiamo le forze. Abitare continua ad essere una cosa bellissima».
Non è cambiata la psicologia della casa?
«La parte tecnico-funzionale è cambiata moltissimo. Ma nei suoi elementi primordiali, la casa è sempre quella: è la pausa nella giornata. La casa è poi legata a un territorio che a sua volta non è decoro da sfruttare ma disegno della nostra identità».
A proposito di identità. Lei è ticinese. Quanta Italia c’è in Mario Botta?
«Mi auguro che l’Italia sia entrata in toto in Mario Botta. Sono nato in una famiglia svizzera, ma mia madre era di Como. Per la matrice culturale mi sento italiano, e non solo perché ho studiato a Milano e Venezia, ma perché vivo in modo diretto la cultura italiana, anche solo per ragioni di lingua. Sono orgoglioso di essere italo-svizzero e non svizzero-italiano. Mi considero culturalmente mediterraneo». 
E la Svizzera?
«Politicamente mi sento svizzero, ho il passaporto rosso: svizzero. Vivo al confine fra Italia e Svizzera. Mi sento collocato lì». 
Risiedere al limite di due Paesi cosa vuol dire?
«Sento la forza delle frontiere e sento che la condizione di frontiera è di grande privilegio: si sentono meglio i conflitti e le diversità, le contraddizioni del vivere. A Mendrisio mi sento più libero di come mi avvertirei se fossi a Zurigo».
In che senso?
«Lì, nel, cuore della Svizzera, ci sono i condizionamenti, a partire da quelli dettati dalla piazza finanziaria. Qui a Mendrisio, vedo meglio le sponde dell’Africa e le Alpi. Mi piace essere al limite».
In primavera torna a Milano per il nuovo edificio del Teatro alla Scala. Orchestra e Corpo di ballo non vedono l’ora di avere la nuova sala prove e quella d’incisione.
«Hanno ragione. La Scala è un teatro all’italiana nato dalla generosità dei palchettisti, ma per fortuna è un camaleonte che mantenendo inalterata la sua identità si è allineato con le esigenze dei tempi, rispondendo alle continue richieste».
All’alba del Duemila, mise mano alla struttura della Scala. Inevitabilmente il restauro accese polemiche. Come si sentiva?
«Ricordo la consapevolezza di trovarmi di fronte a una scommessa importante. Però sentivo di dover rispondere perché l’architettura è figlia del proprio tempo. Così come siamo andati sulla luna, dobbiamo dare risposte alle esigenze di oggi. La Scala aveva bisogno di pensare ai suoi prossimi 50-70 anni di vita». 
Novità nella tradizione.
«Continuiamo a frequentare i luoghi delle nostre nonne e bisnonne. Come loro andiamo a teatro per sognare gli stessi amori, vedendo le stesse disgrazie e tragedie. È straordinaria la contemporaneità di questi due mondi: il nostro virtuale ed elettronico e quello delle generazioni passate. Questo è il privilegio di vivere nelle città cariche di storia, e in particolare nelle città europee. Possiamo condividere le stesse emozioni delle generazioni estinte». 
È il privilegio dei territori della memoria. 
«È il grande vantaggio della cultura europa. Gli americani probabilmente tutto questo lo sentono meno, si spiega anche il loro nomadismo, quell’andare di casa in casa, da un posto all’altro con estrema disinvoltura».
E torniamo al discorso di casa luogo dell’anima. Non trova che proprio per questo sia poi difficile spiccare il volo altrove? La casa può diventare anche una prigione.
«No, perché per essere veramente universali, bisogna saper essere profondamente locali. Se conosci bene il tuo luogo, se senti la solidità delle radici, allora hai voglia di aprirti all’altro». 
Quella dell’architetto è considerata una professione senza futuro. È proprio così?
«Sicuramente ci sono più architetti di quanti ne richiede il mercato. È preoccupante quando gli studi non portano più a una professione definitiva. Ora viviamo come nell’Ottocento quando tutti studiavano diritto poi facevano altro. Vedo tanti laureati in architettura che poi insegnano disegno o matematica, fanno i designer ma anche i cantautori. È una professione molto seducente perché è onnicomprensiva, offre un approccio alla vita ampio e diversificato. Poi l’architettura si vede. Non può non esercitare fascino sui giovani». 
Botta e il mattone rosso. Un amore senza fine.
«Per la verità non è il solo materiale che amo. Prediligo i materiali naturali, frutto della terra. Dall’argilla bruciata è nato il mattone: che io uso. La roccia ha prodotto pietre: che io uso. Mi piace pensare che il costruire diventi elemento che fa fiorire la terra madre. La terra ha già in sé le matrici del proprio essere. La costruzione non è un modo per costruire sopra la terra, ma è costruire pietra su pietra al di sopra della terra». 
C’è chi le contesta di fare sempre la stessa cosa. Che cosa replica a questa critica?
«In parte hanno ragione. Perché il linguaggio è sempre quello, ma il linguaggio non lo puoi modificare. Les Demoiselles d’Avignon hanno lo stesso linguaggio di Guernica, ma dicono due cose diverse».
A proposito di stile. Difficile immaginarla senza la camicia coreana.
«La indosso perché non mi piace il superfluo, l’addobbo mi dà fastidio. Questo tipo di camicia mi consente di non portare la cravatta. Fu dopo un viaggio in Corea che iniziai a indossare queste camicie. Sono stato al Quirinale, e senza la cravatta mi sono sentito comunque elegante e a mio agio».

In quale occasione ha incontrato il presidente Sergio Mattarella?
«Gli ho presentato il progetto di trasformazione e valorizzazione degli spazi di Palazzo San Felice». 
Qual è l’edifico o lo scorcio architettonico che ama più di tutti?
«Il Pantheon. Ha un’essenza tale che è il sogno, il miraggio di tutti gli architetti. Con un solo buco verso il cielo, una sola piastra circolare attua una sintesi fra terra e cielo, è un elemento finito che permette di leggere anche l’infinito. È costruzione fra le più strabilianti». 
Nell’epoca 4.0, che fine ha fatto la matita?
«Io la uso ancora, continua a darmi la gioia di vivere, di poter dare un contributo, di salvare almeno me stesso di fronte alla complessità del mondo. Alla fine anche quando fai un bicchiere, una sedia o un pezzo di città parli di una tua possibilità di dare uno spazio di vita all’uomo, che dia gioia di vivere. Lo schizzo, poi, porta con sé l’atto primigenio, l’inizio di un’avventura. L’inizio è più forte della realizzazione finale, diceva Louis Kahn, porta i semi e il potenziale dello sviluppo futuro».