Corriere della Sera, 15 gennaio 2019
California, caduta dei tralicci storici
Da esempio entusiasmante del dinamismo dell’imprenditoria americana a favola tragica del fallimento di un modello di capitalismo applicato all’erogazione di servizi pubblici. Sopravvissuta al tremendo terremoto di San Francisco del 1906 che distrusse quasi tutte le sue infrastrutture, la Pacific Gas and Electric Company (PG&E), dichiara oggi bancarotta, incapace di fronteggiare le conseguenze degli incendi che nel 2017 e nel novembre scorso hanno devastato la West Coast americana e dei quali la società elettrica è la principale responsabile.
Finita l’epopea del gold rush, la corsa all’oro, dalla metà dell’Ottocento (come San Francisco Gas Company prima di una girandola di fusioni) questa società ha alimentato col suo gas e, poi, con la generazione elettrica, lo sviluppo della California settentrionale. Ma quello che a fine Ottocento era un gioiello nato dalla competizione tra varie società (suo l’impianto che nel 1879 fece di San Francisco la prima città americana dotata di una centrale elettrica), è pian piano diventato una utility mastodontica (serve 16 milioni di californiani) e priva di dinamismo. Un’impresa che, dovendo massimizzare la remunerazione degli azionisti in Borsa, non investe più nel rinnovo di infrastrutture sempre più vecchie e pericolose.
Il «Camp Fire», il più grave incendio della storia americana che nel novembre scorso ha ucciso almeno 86 persone e distrutto 19 mila case e aziende nella zona di Paradise, a Nord di San Francisco, è stato innescato da un malfunzionamento della rete elettrica della PG&E: gli anelli d’acciaio di un traliccio hanno tranciato i cavi elettrici che sono caduti in una nuvola di scintille sulla vegetazione rinsecchita dalla siccità.
Il ministro della Giustizia dello Stato minaccia di incriminare penalmente la società per omicidio, ma per ora a mettere con le spalle al muro l’azienda sono le cause civili: 700 denunce di 3.600 soggetti che si dicono danneggiati.
Ma «Camp Fire» è solo un episodio, anche se il più grave: il California Department of Forest and Fire, l’authority pubblica per gli incendi e la tutela delle foreste, ha già certificato che la PG&E è responsabile (o comunque al centro) di 18 dei 21 incendi del 2017: cavi caduti sugli alberi o alberi precipitati sulle linee elettriche, trasformatori in avaria, eccetera: altri duemila soggetti danneggiati che chiedono indennizzi.
La PG&E, che prima dei crolli in Borsa delle ultime settimane valeva 13 miliardi di dollari, dovrebbe pagare danni stimati in almeno 30 miliardi. Impossibile: da qui la decisione di dichiarare bancarotta con la proceduta del Chapter 11: la società non scomparirà, ma viene messa al riparo dai creditori e verrà gestita da un nuovo vertice, sotto la sorveglianza della magistratura.
Geisha Williams si è infatti dimessa, ieri, dalla carica di amministratore delegato. Cubana immigrata negli Usa, era la prima donna e ispanica al comando di una grande azienda americana.
Meglio, comunque, non farsi troppe illusioni su un radicale cambiamento di rotta del gruppo: nel 2001 la PG&E dichiarò già una prima volta bancarotta, uscendo tre anni dopo dalla procedura grazie ad aiuti pubblici e senza grandi cambiamenti sostanziali. Nel 2010 la società fu responsabile di una tremenda esplosione delle tubature del gas a San Bruno, vicino all’aeroporto di San Francisco: 8 morti e danni enormi. Riconosciuta colpevole per la mancata manutenzione degli impianti, ha pagato una multa enorme (1,6 miliardi di dollari) e ha tirato dritto.
Cambieranno le cose ora? I giornali californiani sono scettici: scrivono che dopo i disastri del 2017 l’azienda cominciò a parlare della necessità di modernizzare i suoi impianti per renderli più sicuri. Da allora l’unica messa in sicurezza è stata quella del quartier generale della PG&E a San Francisco: vetri antiproiettile ovunque.