La Stampa, 15 gennaio 2019
Il caso Battisti, un assassino trasformato in romantica primula rossa
«Cesare Battisti, una vergogna nazionale multipla», scrive Giuliano Ferrara su Twitter, ed è la prima di due cose sagge dette ieri. C’è dentro tutto in questa lunga storia infame, originata nelle farneticazioni rivoluzionarie degli Anni Settanta, al cui tramonto seppe distinguersi per demenza nella demenza il gruppuscolo di Battisti, i Proletari armati per il comunismo: il 16 febbraio del ’79 ammazzarono a Milano il gioielliere Pier Luigi Torregiani.
Gli spararono alle spalle (e lì rimase paralizzato Alberto, il figlio) perché aveva resistito a una precedente rapina, e cioè aveva osato reagire all’esproprio proletario propedeutico all’insurrezione. È soltanto uno di quattro omicidi che molto dicono del delirio di tempi percorsi da bande di assassini, di destra e di sinistra, su cui prima, durante e dopo è spessissimo calata l’attenuante romantica e specifica della gioventù che spara per un mondo migliore. C’era anche questo sentimento nella dottrina Mitterrand che ha garantito protezione ai terroristi riparati in Francia, purché dichiarassero estinta la lotta armata e non fossero responsabili di fatti di sangue. Si intendeva proteggere da condanne per reati d’opinione, per quanto spaventose, e si finì con l’asilo concesso a Battisti, evaso nel 1981 dal carcere di Frosinone, fuggito in Francia, poi un decennio in Messico, all’inizio degli Anni Novanta di nuovo a Parigi.
Quando il ministro guardasigilli Roberto Castelli (Lega) scosse lo Stato dal suo torpore, e pretese la restituzione di Battisti, fu automatico erigere barricate di selci contro il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, «animato da spirito di vendetta contro un rivoluzionario», come disse lo scrittore e filosofo Philippe Solliers. Battisti era stato arrestato in un cinema dove si proiettava un film sul caso Moro, era il 2004, ma la versione dei tribunali italiani fu derubricata a giustizia sbrigativa e militaresca. In Francia ci si avvolse nel suggestivo, triste e umoristico sandinismo pontino diffuso da Battisti: vogliono la sua testa le camicie nere, scrisse «Libération»; il sindaco di Parigi, Bertrand Delanoë, oppose istituzione a istituzione dichiarando l’ospite sotto la tutela della capitale; e quando soltanto un mese dopo Battisti venne liberato in attesa del risultato dei ricorsi, la giallista Fred Vargas lo ospitò a casa e gli garantì un’assistenza legale all’altezza della causa. Fosse solo quello, sarebbe anche poco. E invece i ricorsi vanno male: l’estradizione è legale. Ma intanto il condannato era sparito da sotto gli occhi di tutti, compreso il ministro dell’Interno della presidenza di Jacques Chirac: Nicolas Sarkozy. Battisti s’era fatto un bel giretto: in auto dalla Francia alla Spagna, da lì a Lisbona, poi in volo a Madeira, di nuovo in volo alla Canarie, quindi Capo Verde, infine Fortaleza in Brasile.
E che era successo? Vallo a sapere. Ci si può fidare della parola di Battisti? Se sì, la spiegazione la regalò alla rivista brasiliana «Istoé»: «L’idea della mia fuga fu di un agente dei servizi segreti francesi». L’idea e anche il passaporto, disse Battisti. Non c’è niente di ufficiale, è soltanto un passaggio della lunga storia infame che prosegue negli anni di Lula, uno dei tanti eroi internazionalisti della sinistra italiana, da cui i fiacchi governi della sinistra italiana ottennero qualche promessa e altrettante prese per il naso.
Ecco, poteva tutto finire qua, con la collaborazione fra Giuseppe Conte e il successore di Lula, Jair Bolsonaro, l’arrivo di Battisti a Ciampino e la traduzione in carcere, una tardiva ma orgogliosa vittoria. E invece se n’è fatta una festa di piazza, Ignazio La Russa e Daniela Santanché hanno condotto i loro fratelli d’Italia sotto il consolato brasiliano di Milano per un passo di danza e un brindisi all’arresto del «criminale comunista». Matteo Salvini e Alfonso Bonafede, titolari dell’Interno e della Giustizia, hanno atteso la preda all’aeroporto per mostrargli il ghigno dei cacciatori di taglie: vigliacco, delinquente, la pacchia è finita, marcire in galera (buttare la chiave, ha aggiunto Giorgia Meloni) in una declinazione infantile e gradassa del potere statale, noncurante del più elementare principio della pietà che il vincitore concede al vinto: macché, un giro del villaggio con pece e piume a maggior gloria dei nuovi padroni. «Ha le manette?», chiedono dunque dallo studio mentre Battisti scende le scalette a reti unificate e giubilanti, e no che non le ha, se ne era già accorto il senatore azzurro Francesco Giro, che non lo voleva ammanettato, ma «ammanettatissimo questo delinquente». E allora tocca chiudere con la seconda e ultima cosa saggia (e pure struggente e salvifica) sentita in giornata: «Non trasformiamo Battisti in un orco. Qualcuno s’è lamentato che non scendesse dall’aereo in manette. Arriva in un aeroporto militare, circondato da dodici persone, vogliamo anche mettergli le catene ai piedi? Mi sembra esagerato. Mi aspetto che venga trattato con tutti i diritti e il rispetto che deve avere un detenuto». Parole di Alberto Torregiani, sulla sedia a rotelle dal 16 febbraio 1979, giorno in cui suo padre Pier Luigi venne assassinato dalla banda di Battisti perché non accettava di essere rapinato in nome della rivoluzione.