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 2019  gennaio 15 Martedì calendario

Nella radio globale vince l’omologazione

L’idea è geniale: un mappamondo sonoro interattivo, digitale e tridimensionale, che con un click ti fa viaggiare attraverso i continenti in tempo reale. Radio Garden è un’app gratuita ideata da un team olandese (ci ha lavorato per tre anni dal 2013) che permette di collegarsi con circa diecimila stazioni radiofoniche sparse per il globo – il pianeta Terra, costellato di puntini verdi (le sedi delle emittenti), a portata di smartphone. Puoi ruotarlo, ingrandirlo, circumnavigarlo alla ricerca del paese che t’incuriosisce o t’ispira, infine avventurarti in uno zapping che per le sue infinite risorse rischia anche di diventare un passatempo impegnativo, se non ossessivo. Basta un’infarinatura di geografia e il viaggio inizia, dall’Europa alle remote regioni della Siberia, dall’Estremo Oriente all’Oceania, dalle metropoli centrafricane ai deserti maghrebini, passando ovviamente per le blasonate e influenti stazioni inglesi e americane. Aspettative?
Un’esotica full immersion musicale, son cubani, morne capoverdiane, fado portoghesi, bossanove brasiliane, raga indiani, qawwali pachistani, tuva mongoli, flamenchi spagnoli, malouf tunisini, kwela sudafricani. E perché no? Anche romantiche, contagiose melodie napoletane e messicane.
Delusione. La Terra è anche più piccola del pianeta che riusciamo a iconizzare sullo schermo del cellulare. Esploriamo a caso, spingendoci anche nelle regioni più remote, nella Russia orientale, nel subcontinente indiano, in Madagascar, nella Terra del Fuoco, in Nigeria. A parte le poche stazioni tematiche (jazz, classica, rock e all news) pare sempre di ascoltare la stessa radio, medesima enfasi nelle presentazione, nei jingle, e soprattutto (tristemente) stessa musica: Beyoncé, Jay Z, Rita Ora, Camila Cabello (che ricorre con una frequenza impressionante in centinaia di playlist), Rihanna, Ariana Grande, Demi Lovato; in Kazakistan, Madonna e Michael Jackson; in Nuova Zelanda, Phil Collins; in Italia, a Pomigliano D’Arco, Drake; in Grecia, Robbie Williams; in Macedonia, Justin Bieber. E dappertutto rap, rap, rap espresso nelle varie lingue, anche le più impenetrabili, ma sempre perfettamente in sintonia col modello Usa. Nessun suono che lasci indovinare influenze indigene: spregiudicate imitatrici di Whitney Houston, tormentoni stile Abba, cavalcate danzerecce alla Gloria Gaynor, madonnare e little monster (imitatrici di Lady Gaga) à gogo. Il villaggio globale ha appiattito tutto, ha ristretto i confini, ha vulcanizzato le tradizioni. E la world music? Un miraggio degli anni Novanta del secolo scorso?
«Quello della contaminazione e dell’omologazione è un meccanismo inevitabile per la musica, che è pop, cioè popolare, per definizione. È un prodotto di largo consumo che arriva e si radica dappertutto. Risultato della globalizzazione, c’è poco da fare, dobbiamo ormai accontentarci di imitazioni, al limite di coniugazioni locali.
Questo porta con sé un altro effetto collaterale, non sempre negativo, e cioè che molti di questi fenomeni sono destinati a bruciarsi nel giro di poco tempo», commenta Linus, conduttore radiofonico e direttore artistico di Radio Deejay. «L’esterofilia delle radio non è una novità, da sempre l’etere privilegia i successi angloamericani, specie nelle radio mainstream, che puntano su ascolti e ricavi», aggiunge Luca De Gennaro, che conduce Whatever su Radio Capital. «Con la diffusione online non ha più senso parlare di emittenti locali poiché ogni radio è potenzialmente ascoltabile ovunque nel mondo.
Il prossimo passo? L’uscita dalla FM, che sta diventando una piattaforma obsoleta, e la completa digitalizzazione delle emittenti. Le radio musicali più belle del mondo, come BBC6 Music o KCRW di Los Angeles, non sono legate al territorio ma lavorano ormai con uno spirito globale». In effetti, scorrazzando su Radio Garden le radio ancora legate al territorio sono più rare del rinoceronte bianco.
Appartengono tutte ai paesi in cui la tradizione musicale non è stata soffocata dall’imperialismo culturale angloamericano (l’Egitto, dove ancora trasmettono le canzoni chilometriche di Oum Kalthoum, la diva morta nel 1975, oltre ai brani di rapper e pop singer di lingua araba; il Mali, considerato la culla del blues afroamericano e ancora forte di una straordinaria vitalità musicale) e ai popoli il cui forte spirito nazionalista sostiene fieramente la produzione locale (come la Turchia, che per campanilismo supera persino la Francia).
«La world music non è mai stata un genere radiofonico di successo, e soprattutto ogni parte del mondo la interpreta in modo diverso. In America, ad esempio, italiani come Jovanotti, Carmen Consoli e Vinicio Capossela sono percepiti come artisti di World Music», aggiunge De Gennaro.
«La musica che è nell’aria a volte premia, e questo è un bene, anche artisti di provenienza diversa, cosa impensabile nelle grandi stagioni degli anni Sessanta e Settanta», conclude Linus. «Quello che mi preoccupa, da italiano, è l’incapacità del nostro mercato, ormai privo di grandi scuole, strutture e produttori, di sfruttare questa occasione».