La Stampa, 14 gennaio 2019
Tanta voglia di Keynes
A breve distanza dall’inizio della crisi del 2007-2008 (iniziata nel settore finanziario e poi dilagata nell’economia reale) gli economisti hanno aperto un dibattito sulle misure da adottare con urgenza per contenerne i devastanti effetti, e sulle possibili vie d’uscita. Le due tesi radicali che si dividevano il campo, riassunte in termini assai semplici, erano da un lato quella della drastica riduzione della spesa pubblica, il contenimento dei costi, il blocco dei salari e un aumento della imposizione fiscale, dall’altro quella del controllo dei mercati, il rafforzamento del sistema bancario e una rigida osservanza del principio del pareggio di bilancio. I Paesi membri dell’Unione, a seconda delle politiche di governo e delle condizioni in cui si trovavano, hanno reagito con misure diverse; l’Unione europea, come si sa, ha seguito entrambe le vie, graduando il suo intervento a seconda dei Paesi membri, e sollevando molte critiche sulle disparità di trattamento di volta in volta praticate. Keynes avrebbe avuto da ridire sul modo nel quale tutti i governi e l’Unione stessa hanno reagito alla crisi tanto inattesa quanto violenta.
La crisi è durata a lungo, più di un decennio, e ha prodotto risultati disparati: alcuni Paesi ne sono usciti, altri sono ancora invischiati nelle conseguenze drammatiche che essa ha provocato, altri sono già sull’orlo della recessione.
L’analogia con il 1929
Nell’ambito delle diverse proposte emerse nel Regno Unito, più che negli Stati Uniti, e marginalmente anche in Italia, si è discusso se, potendosi equiparare grosso modo la crisi in cui viviamo con quella che provocò la Grande Depressione del 1929, non fosse possibile adottare le stesse misure che John Maynard Keynes aveva proposto nella sua opera più famosa, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, edita nel 1936, ma anticipata da alcuni saggi negli anni precedenti. Il più convinto assertore di questa linea è stato il biografo ufficiale di Keynes, Robert Skidelsky, Keynes: The Return of the Master, Allen Lane, 2009 (un riassunto del libro predisposto dall’autore si trova in italiano nel keynesblog 2013; ma vedi anche Peter Clarke, Keynes: The Twentieth Century’s Most Influential Economist, Bloomsbury, 2010).
L’equiparazione delle due crisi non è parsa ardita, pur avendo esse origini e dimensioni sociali diverse, essendosi la prima abbattuta soprattutto sulle classi deboli, la seconda sulla classe - o, se si vuol abbandonare questa connotazione ideologicamente troppo connotata - sul ceto medio, aumentando pericolosamente le diseguaglianze e risolvendosi in un impoverimento generale.
La «ricetta» di Keynes si poteva riassumere in poche parole: alimentare la domanda di beni di consumo, incoraggiare gli investimenti, espandere la spesa pubblica. Ora, siccome quest’ultimo punto è stato oggetto di uno scontro cruciale con la Commissione europea, poi risolto brillantemente dalla mediazione raggiunta dal governo italiano, occorre riflettere sui primi due rimedi e riservare qualche considerazione finale sul terzo.
Non dobbiamo dimenticare che Keynes era un liberale, ma non credeva nelle risorse autonome del mercato come Hayek: d’altra parte proprio la crisi che ancora ci attanaglia ha dimostrato il fallimento del mercato. Certo era contrario ai sacrifici, e privilegiava la crescita guidata della domanda interna attraverso una riduzione dell’imposizione fiscale, l’aumento della propensione al consumo, l’investimento nella ricerca, la lotta alla precarietà del lavoro. Ovviamente bisogna scontare le condizioni di incertezza in cui si trovano i soggetti economici, ma proprio questa situazione diventa il fulcro delle teorie di Keynes: l’incertezza non deve portare alla tesaurizzazione delle risorse da parte della famiglie e degli imprenditori, ma al contrario a un maggior consumo e a maggiori investimenti.
Vicino all’ordoliberismo Ue
Keynes è stato contrapposto non solo a Hayek ma anche a Einaudi (Francesco Forte, Einaudi contro Keynes, IBL, 2016) optando per un liberalismo (non liberismo) moderato e socialmente sensibile, assai vicino all’ordoliberismo dell’Unione Europea. Ma anche senza abbracciare totalmente le tesi di Keynes, che favoriva l’inflazione, la piena occupazione, l’intervento massiccio dello Stato, perché non pensare al rilancio delle opere pubbliche, anche nelle forme del project financing, alla semplificazione delle regole degli appalti, a un bilanciamento ragionevole dell’analisi costi-benefici che non sia circoscritto alla singola opera ma sia effettuato in una dimensione nazionale?
Non si deve considerare solo l’interesse di una piccola comunità, ma l’interesse complessivo della nazione quando si pensa alla rete dei trasporti, alla comunicazione viaria e ferroviaria, alla inclusione degli immigrati nelle strutture di lavoro e alla loro assimilazione nella società. I rimedi possono essere misti, pubblici e privati, come insegna Guido Calabresi (Il futuro del law and economics, Giuffrè, 2018). La politica del sacrificio porta benefici apparenti e transeunti. Forse è questa la lezione più importante e duratura del geniale economista di Cambridge.