La Stampa, 14 gennaio 2019
Forze armate, 20 anni al femminile
C’è un anniversario speciale che marca questo 2019, il ventennale della legge che completò il ciclo delle grandi riforme di parità in favore delle donne aprendo alle ragazze la possibilità di arruolarsi nelle Forze Armate. La legge 380, proposta dal socialista Valdo Spini, fu approvata nell’ottobre 1999, dopo un iter lunghissimo e complicato: se ne parlava dall’inizio degli anni ’60, quando la riforma delle pubbliche amministrazioni aveva fatto cadere ogni discriminazione legata al sesso negli impieghi statali, ma le riserve erano enormi e l’idea prevalente restava quella che le donne in caserma fossero soltanto una complicazione.
Cambiamento di date in corso
Oggi le soldatesse sono oltre 14mila, hanno dimostrato la loro operatività e capacità in tutti i settori e teatri, sono diventate una risorsa importante nelle missioni internazionali. Raccontarle è difficile: le regole della comunicazione in ambito Difesa sono severe, il rischio della retorica molto alto. Forse rappresentano meglio le cose i dati e la descrizione del contesto. Al primo bando di arruolamento, arrivato nel Duemila, il 54,9 per cento delle 22.692 domande di ammissione all’Accademia di Modena fu presentato da donne. A Livorno le domande risultarono 7.444, il 50,8 per cento del totale, all’Aeronautica di Pozzuoli il 50,8 per cento. Una sorpresa per tutti, compreso l’allora ministro della Difesa Sergio Mattarella, che forzando i tempi aveva anticipato gli arruolamenti femminili inizialmente previsti per il 2001.
Come spesso accade nella nostra storia, insomma, l’Italia si scoprì un Paese “più avanti” della sua rappresentazione, degli stereotipi e dei filtri ideologici usati per analizzare la realtà. In quello scorcio di fine secolo esiste ancora la naja obbligatoria. I conservatori giudicano una donna in divisa un oltraggio alla tradizione maschile dell’esercito. I progressisti non amano le divise, chiunque le indossi, così come il movimento femminista. Per di più, il porno-soft ha usato costantemente la figura della soldatessa come icona sexy-comica, seppellendo il Paese di titoli tipo “La soldatessa alla visita militare”, “La soldatessa alle grandi manovre”, “La dottoressa del distretto militare”. Insomma, dire «Voglio arruolarmi», per una donna, è una cosa un po’ da matti. Ma l’ultimo tratto dei ’90 è anche il momento delle prime e impegnative missioni italiane all’estero, in teatri di guerra. Si avvia l’intervento in Kosovo. E’ ancora vivo il ricordo della battaglia di Mogadiscio (coi morti italiani al check point Pasta) ricostruita e celebrata da un best seller americano che proprio in quel periodo diventerà un grande film: Black Hawk Down. Nella scelta delle prime donne militari agisce oltre a un indubbio anticonformismo, oltre alla ricerca di un lavoro qualificato, oltre al classico riferimento al “servizio del Paese”, anche e forse soprattutto la voglia di esperienze fuori dalla norma, di avventura, il desiderio di essere dove succedono cose.
Le motivazioni della scelta
Spesso, come raccontano off-record un po’ tutte le arruolate della prima ora, a questa aspirazione si associa l’ambizione di entrare in una comunità “altra”, fuggendo dalla famiglia, dalla provincia, da percorsi di vita che sembrano già segnati.
I sociologi le chiamano “motivazioni postmoderne”. In uno dei primi studi effettuati sulle volontarie della Scuola Fanteria di Cesano, 46 ragazze su 51 indicano come principale spinta all’arruolamento il “mettersi alla prova”, in 36 casi unita al “desiderio di avventura”. Solo 26 citano “i vantaggi del posto fisso”. «Quando arrivarono in caserma le prime allieve, la vera sorpresa fu che non ci fu nessuna brutta sorpresa» racconta il tenente colonnello Pasquale Spanò, comandante di plotone all’Accademia di Modena all’epoca del 182° corso, il primo a reclutare allievi ufficiali donne. «Avevamo superato notevoli problemi logistici, di adeguamento delle strutture e dell’assistenza sanitaria; avevamo visitato l’Accademia francese e quella greca, che da anni arruolavano ragazze; insomma, ci eravamo preparati. Ma eravamo comunque curiosi, forse anche preoccupati. Fu tutto più facile di quel che immaginavamo». Quelle ragazze, racconta Spanò, erano addirittura più motivate degli uomini: «Per molte di loro l’arruolamento concretizzava un sogno che era stato per molto tempo di incerta realizzazione: erano le prime a chiedere di essere trattate alla pari». Alla fine del tirocinio (40 giorni in cui si verifica la tenuta fisica e psicologica) le percentuali di rinuncia furono le stesse dei maschi. Al giuramento si resistette alla pressione mediatica che richiedeva di metterle in prima fila nelle foto ufficiali. «Sarebbe stata una forma di favoritismo, loro stesse non apprezzavano». Si applicò il normale criterio dell’ordine d’altezza e molte finirono comunque davanti ai flash.
La strada dello standard unico
Ecco, fra gli stereotipi da cancellare quando si parla di italiane in divisa c’è anche quello del Soldato Jane, il blockbuster di Ridley Scott che uscì nei cinema italiani a fine anni ’90, più o meno in coincidenza col dibattito sulle donne nelle Forze Armate (e che peraltro nel nostro Paese fu stroncato dalla critica, da destra e da sinistra, con analogo vigore). Nel film la protagonista si ribella al doppio standard di addestramento dei Navy Seal, che le concede speciali privilegi nelle esercitazioni e in caserma in quanto donna. Al contrario da noi, fin dall’inizio, si è scelta la strada dello standard unico: nessuna differenza nelle prove e negli impieghi. Anche per questo non esistono statistiche di genere su come e dove sono impegnate le militari italiane, su quante donne e quanti uomini partecipano a missioni, esercitazioni, attività di teatro.
La perfetta uguaglianza è un vantaggio o un limite? Demi Moore la cercava rasandosi i capelli a zero e sfidando i colleghi maschi in training fisici terrificanti, ma l’esperienza ha insegnato che il plus delle donne militari in missione ha poco a vedere con il modello Rambo, che talvolta coincide persino con una strumentalizzazione dell’immagine femminile. L’uso spregiudicato delle componenti femminili dell’esercito per campagne di tipo reputazionale e propagandistico arrivò al top nella prima Guerra del Golfo, l’operazione Desert Storm, quando la mobilitazione in massa di 40mila soldatesse Usa fu utilizzata per un’operazione simpatia presso l’opinione pubblica americana, scossa e sconcertata dall’intervento, al punto che il conflitto fu soprannominato Mom’s War, la guerra delle mamme. Non senza polemiche e pasticci: ci furono persino casi di arruolate richiamate in patria per aver lasciato i loro bambini in situazioni di abbandono. Non è lo stile italiano. Che peraltro, in un contesto di parità, riconosce la specificità di alcune competenze delle donne. Una delle esperienze più significative delle nostre Forze Armate sono i Female Engagement Team, un programma Nato avviato al termine del conflitto in Afghanistan con lo scopo di addestrare piccoli gruppi di soldatesse a sviluppare relazioni fiduciarie con la popolazione femminile, che in quei Paesi magari gode di scarsi diritti ma è molto influente nella vita quotidiana dei villaggi. C’è una alta partecipazione femminile anche nel reparto multinazionale del Cimic, struttura Nato a guida italiana, che prepara specialisti della cooperazione tra militari e civili ed è attivo fin dalla guerra dei Balcani. Al di là di questi impieghi speciali, la percentuale delle donne nelle nostre Forze Armate resta ferma a livelli piuttosto bassi, poco più del cinque per cento. Ma il confronto con altri Paesi europei non è poi così negativo.
Il confronto con il resto dell’Ue
In Francia, dove il reclutamento è aperto alle ragazze da mezzo secolo, la quota è del 10 per cento. Idem nel Regno Unito, dove peraltro il personale femminile non può accedere a diversi Corpi come i Royal Marines e la cavalleria. Semmai la differenza riguarda le carriere, perché da noi bisognerà aspettare il 2022 per vedere il primo ufficiale donna valutato per l’avanzamento a colonnello. Il soffitto di cristallo, una volta tanto, non c’entra. C’entrano le regole di anzianità che guidano gli ordinamenti militari: siamo stati gli ultimi, in ambito Nato, ad aprire le caserme alle ragazze; saremo gli ultimi a salutarne una col grado da dirigente. Così il ventennale della legge 380 sarà forse l’occasione per dare un po’ di visibilità a questo tipo di impegno, di solito lontano dai riflettori. E magari servirà anche a sottolineare il paradosso di un mondo così impregnato di valori maschili e muscolari, ultimo ad accettare le donne, che tuttavia fin dagli inizi ha intravisto i rischi del gender gap e li ha ridotti al minimo. Stesso tirocinio, stessa paga, stessi ruoli, stesse regole nelle promozioni.