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 2019  gennaio 14 Lunedì calendario

«Il mio tennis in vinile». Intervista a Roberta Vinci

Essere (stata) Roberta Vinci. Senza Roby è più difficile, c’è chiaramente meno luce. Stavolta è il tennis che perde. Tutto. Mancano quelle aperture solari, quel suo back di rovescio nato per gioco e poi diventato "il gioco" (ed era una ricchezza unica), manca quel suo sorriso a volte affannato, e quell’inumidirsi le labbra perché la fatica era sempre tanta. Roberta Vinci ha smesso il 14 maggio scorso, sconfitta a Roma dalla Krunic ma vincitrice di tutto il resto. Il quadro della sua carriera, scandita da un emozionante crescendo e in barba al tempo vissuto, si incorniciava alla perfezione con gli spalti del Foro Italico, luogo magico in cui la diversità di Roby s’era sempre mescolata alle statue di marmo e allo skyline di Monte Mario. Il prossimo 18 febbraio compirà 36 anni. Non c’è mai un presto o un tardi per lasciare una vita e cominciarne un’altra. «Da domani sono in vacanza e ne sono felice» disse al Centrale.
Lo direbbe ancora?
«Non cambierei nulla di ciò che ho fatto. Era tempo di andare. La vita agonistica impone scelte cruciali, alcune di queste sono a carico dell’atleta, altre della persona. E poi esistono dei limiti. Che bisogna individuare prima che ci travolgano. Avevo deciso di smettere. L’ho fatto con serenità».
Ma esiste una chiave per lasciare in modo così dolce?
«Esiste un modo per investire sul "dopo" prima che arrivi. Bisogna dedicarsi a ciò che verrà prima che questo futuro si presenti. C’è voluto del tempo per ammetterlo, ma i rigori del professionismo stavano cominciando a pesarmi: gli orari, i ritmi, le regole conosciute e quelle meno in superficie, insomma tutto era diventato più faticoso».
E non ha visto alternative…
«Mi dicevano: ma dai Roby, continua a giocare il doppio, continui a guadagnare un po’ di soldini e resti nel circuito. E io rispondevo: ma che siete matti? Che me ne importa dei soldi. Scusate tanto, ma se mi pesa andare su e giù per il mondo giocando singolare e doppio, secondo voi quanto potrebbe pesarmi fare la stessa cosa per una partita di doppio qua e un’altra là, magari con dieci ore di fuso orario da compensare? No. Era ora. Non rimpiango nulla».
Perché è stato tutto bello.
«Bello, sì. Ho avuto una carriera che non avrei mai immaginato quando cominciai a giocare, piccoletta, al circolo di Taranto».
Una carriera divisa in due da un cappellino…
«Vero, non ci avevo mai pensato. Però è così. Fino a un certo punto ho giocato con il cappellino, sotto il sole o indoor. Poi non più. E non ricordo come sia andata… Magari l’ho tolto a un cambio campo e non l’ho più indossato».
Vive a Milano, dove negli ultimi mesi si era allenata con Lorenzo Di Giovanni. Ora però c’è tanta leggerezza in più…
«E la città è bellissima. Questo "buen retiro" me lo sono proprio meritato. E lo sto vivendo a 360°. Non ho più obblighi, impellenze, non c’è più nessuno che mi dica cosa fare e quando, oppure cosa mangiare. Sono libera».
Parliamo di colazioni, pranzi e cene di una campionessa?
«Il rapporto col cibo è cruciale per capire la svolta. Adesso mi permetto ciò che mi sono sempre negata. Senza eccessi, certo, senza sbracare, ma non me frega niente se ho qualche chilo in più addosso. È come se l’adolescente si fosse fatta un po’ da parte per lasciare spazio alla donna. Poi verrà di nuovo il momento in cui farò più attenzione. È normale, è umano, mi dà anche più forza questo essermi sganciata da un codice di comportamento. Il mio corpo aveva bisogno di nuove gratificazioni. I primi segnali, l’indicazione che qualcosa doveva cambiare li ho avuti con gli acciacchi, sempre più presenti. L’ultimo al tendine di Achille. Il corpo chiedeva pietà. E in quei momenti sei tu che devi parlare con te stessa e decidere. Nessuno è dentro di te».
Del resto lo deve proprio al suo corpo se è arrivata lassù…
«E alla forza di volontà. Non è facile per una bimba minuta uscire allo scoperto e dire un giorno: guardate che io forse Serena la batto!».
Ma gioca ancora a tennis?
«Sì con gli amici, oppure quando do una mano al mio circolo (il Tennis Club Lombardo). Qualche volta mi diverto a padel. Ma non chiedetemi di prendere una racchetta e provare, solo provare, ad allenarmi. Potrei mordere…».
Che rimane del "suo" tennis?
«Difficile da trasmettere. I modelli sono altri ormai. Non so neppure se sia facile insegnarlo. Il mio era un po’ il tennis su vinile. Più che i colpi, sono culture diverse».
Il legame sportivo con Sara Errani?
«Si è interrotto per fisiologica, umana consunzione. Non c’è cosa che a questo mondo duri in eterno: vita, amore, amicizie. Anche un doppio può finire. Ma siamo in buoni rapporti e mi dispiace per ciò che le è capitato (squalifica per doping, ndr). Ma lei è tosta tosta».
Il tennis italiano al femminile sta pagando dazio ai vostri "glory days"?
«Diciamo che forse era inevitabile. Noi eravamo un gruppo pazzesco. Una rigenerazione immediata del sistema era francamente impensabile».
Vorrebbe provare lei a tirar fuori qualche nuovo talento?
«Non so, non è facile per niente».
Fed Cup, tornei vinti, e poi quella pazzesca giornata a New York, in semifinale allo Us Open. Tutti ricorderanno per sempre quel suo viso eccitato mentre chiede alla folla un applauso per continuare a distruggere Serena. Ma la sua avversaria che faccia aveva?
«Ne ebbe tante, di facce. Ma in quel momento non era problema mio».
Piuttosto era una gioia…
«Eh sì».
E la finale con Pennetta?
«Ho perso ma dentro di me quella partita ha comunque assunto un significato particolare (e lo aveva anche prima che la giocassi). Era come la quadratura di un cerchio, il cerchio delle nostre due esistenze una accanto all’altra».
Bisognerebbe che il suo "back" venisse elevato a patrimonio dell’umanità (sportiva).
«Mi sentivo protetta dal mio rovescio. E pensare che non era così, all’inizio. Mio padre, per esempio, mi diceva: guarda che se giochi anche il rovescio bimane diventi più forte e più robusta da fondo. Ma non mi sono mai piegata. Pensavo: forse è vero, ma non ci sto. Sarei finita per diventare una delle tante. O mi sbaglio?».