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 2019  gennaio 14 Lunedì calendario

Il racconto della prima donna allo stadio in Arabia Saudita

12 dicembre 1997. Confederations Cup. La Seleçao di Romario, Ronaldo, Roberto Carlos, Rivaldo stava per scendere in campo allo stadio Re Fahd, a Riad. C’ero anch’io. Circondata da mutawa ( la polizia morale) e indossando la abaya, senza la quale non potevo uscire dalla camera di hotel. Mi sentivo addosso lo sguardo di centinaia di uomini arabi, che per la prima volta vedevano una donna in uno stadio. Si giravano verso la tribuna superiore e gridavano, un po’ arrabbiati e un po’ sorpresi. Re Fahd aveva dovuto proclamare un editto, per consentire all’inviata speciale del Mundo Deportivo di coprire la cronaca di quel torneo. Mai prima una donna aveva potuto accedere a uno stadio. E solo nel 2018 è stato permesso alle donne l’ingresso, ma non in tutti i settori.
La prima notte a Riad fu la peggiore. Mi servirono ore per il check-in, nel grande hotel che ospitava le nazionali partecipanti. «Dov’è suo padre? Dov’è suo marito? Di chi è questa carta di credito?», mi chiedevano alla reception una volta e un’altra ancora. Acconsentirono a darmi una stanza soltanto quando Mario Lobo Zagallo, ct del Brasile, intercedette per me. Con la chiave mi fu consegnato un pacchetto. Dentro c’era la abaya, l’indumento nero imprescindibile. «E si compri un hiyab». Il velo.
In piena notte squillò il telefono in camera. Qualcuno parlava in arabo e si mise a gridare. Riattaccai. Un’altra chiamata: stesso tono minaccioso, intercalato con insulti in inglese e in portoghese (forse pensavano che fossi brasiliana). Erano le quattro di mattina: misi una sedia contro la porta e mi sedetti per terra, aspettando che albeggiasse. Cambiai stanza. La notte dopo, riecco le minacce. Ma stavolta ero preparata a rispondere con lo stesso tono.
Nessuno sarebbe riuscito a farmi abbandonare il mio lavoro per paura. Allo stadio era quasi come se avessi fatto lo striptease, perché mostravo il mio viso: in città tutte le donne camminavano con il niqab, che copriva totalmente i loro volti. C’era un bagno riservato a me, il cartello” lady” avvisava della mia presenza. Non potevo muovermi da sola: dietro di me avevo sempre la scorta personale, Abdullah, e uomini della sicurezza armati fino ai denti.
Ronaldo aveva appena vinto il Pallone d’oro, ma non si sapeva ancora. France Football mi chiese di collaborare all’intervista ufficiale per la copertina. Ronaldo è uno tra i miei migliori amici nel mondo del calcio. Mi interrogava sulla situazione femminile in Arabia e si preoccupava per me, in continuazione. La mia presenza e il fatto che fossi la prima donna nella storia a entrare in un campo di calcio in Arabia Saudita diventarono una notizia internazionale, con grande impatto nel Paese anfitrione del torneo, al punto che Abdullah mi trasmise il messaggio di un principe saudita. Mi voleva comprare. «Non sono in vendita», gli dissi. «Tutti voi occidentali avete un prezzo», rispose, così sicuro di sé che era impossibile non provare paura e disgusto. Il mio prezzo sul mercato era basso: donna, occidentale e usata. Ma ero un personaggio mediatico, potevano essere generosi... «Vali meno di un cane, lo capisci? Però la tua vita qui potrebbe essere piena di lussi... finché ti comporti bene». Non avevo voglia di scherzare. All’ambasciata brasiliana mi consigliarono di mostrare ogni volta il mio accredito con la firma di Re Fahd, per essere lasciata in pace.Chiesi di visitare piazza Dirah, il luogo in cui una moglie poteva essere lapidata, se era stata accusata di infedeltà dal marito. In quelle tre settimane non ci fu” attività” nella piazza. Vinse il torneo il Brasile, con Romario capocannoniere. Prima di prendere il volo di ritorno, misi la abaya in una scatola di cartone e piansi per la prima volta. Quella scatola è a casa mia, a Barcellona, per non dimenticare. È stata la mia peggiore esperienza da giornalista, e ormai sono molti i miei Mondiali, gli Europei, le Coppe America, le Olimpiadi. La peggiore della mia vita.
La situazione in Arabia Saudita è migliorata, rispetto a quella che vissi quasi 22 anni fa. Il principe erede Mohamed bin Salman ha fatto passi avanti, per cambiare la situazione della donna. I mutawa, la polizia che vigila sulla rettitudine morale, hanno perso potere. Si vuole che la abaya sia volontaria, che la donna possa guidare e che entri in uno stadio. A qualcuno potrà sembrare un miglioramento minimo, ma per me ha un potente significato simbolico.
A Gedda, che è vicina alla Mecca ma non è Riad, Juventus e Milan giocheranno la Supercoppa alla presenza di donne nella zona per le famiglie. Gli uomini potranno stare nei posti migliori, i più vicini al campo. La separazione per sesso sarebbe inverosimile in Occidente.
Invece in Arabia Saudita la interpreto come un passo in più verso la libertà: simbolico, ovviamente ancora insufficiente, però importante. Boicottare la partita e chiedere che non si giochi lì è rendere un cattivo servizio a tutte quelle donne arabe che sentono di ottenere l’apertura di finestre, dove prima c’erano soltanto muri.
Nel 1997 io ero sola. Sola. E avvertivo l’odio, negli sguardi di chi mi vedeva come un demonio perché trasgredivo norme sacre. Ora queste donne non saranno sole. Andranno allo stadio autonomamente oppure accompagnate dal fratello, dal padre, da un amico. E quegli uomini e quelle donne sapranno che il calcio può dare visibilità alla lotta delle donne arabe per l’uguaglianza.
(L’autrice Cristina Cubero, giornalista di Barcellona, è vicedirettrice del quotidiano Mundo Deportivo)