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 2019  gennaio 13 Domenica calendario

Tutto esaurito al cimitero di Arlington

Tre rapide salve di fucile e la tromba solitaria di un marinaio, rompono appena il silenzio di Arlington sotto la neve. Stanno seppellendo un veterano del Vietnam. È uno dei sei/sette funerali al giorno nel più famoso cimitero degli Stati Uniti e probabilmente del mondo. Tra la neve che cade compatta s’intravvedono il Potomac e il Lincoln Memorial: oltre il fiume è Washington D.C., da questa parte è Virginia.
Il cimitero degli eroi d’America. Ma nelle oltre 420mila tombe e loculi riposano anche soldati senza medaglie o morti di vecchiaia molti anni dopo il ritorno dal fronte, come quel veterano sotto la neve. I militari “normali” sono ormai la maggioranza dei circa 7mila funerali che si celebrano ogni anno. Ma non sarà così per molto: ad Arlington non c’è più posto. Per quante guerre gli Stati Uniti combatteranno ancora, fra 24 anni al più tardi non si scaveranno più tombe. «Non vogliamo negare a nessun veterano i suoi diritti: semplicemente Arlington non avrà posto», ammette il maggiore Shannon che ha combattuto a Falluja, Iraq, e ora è nell’amministrazione di Arlington.
Il Cimitero d’America avrebbe già chiuso senza il Millennium Project, il programma di espansione che ha aggiunto 27 acri ai precedenti 624. Ci sarà posto per altre 27.282 inumazioni, 16.400 delle quali nei loculi. Ma verso il 2040 non sarà più possibile trovare altro spazio: chiuso tra il fiume, il Pentagono e l’irrefrenabile urbanizzazione dell’area metropolitana di Washington, Arlington chiuderà ai suoi veterani e ai suoi eroi.
Essere sepolto sotto terra o inumato in un loculo non è una questione burocratica o una scelta personale. Sotto hanno diritto alla sepoltura i caduti in combattimento, i prigionieri di guerra e chi ha ricevuto le onorificenze più importanti: la Medal of Honor, la Distinguished Service Cross, la Silver Star, la Purple Heart. Negli ossari possono essere deposte le ceneri di chiunque abbia fatto un solo giorno di servizio attivo e sia stato congedato con onore. Sopra o sottoterra, i soldati possono essere inumati accanto a moglie e figlio se minorenne o con handicap.
Arlington e un altro cimitero di Washington gestiti dall’Esercito, hanno le regole più stringenti. Gli altri 135 nel resto del Paese, governati invece dal dipartimento degli Affari per i veterani, sono di vedute più larghe. Perché dunque preoccuparsi di Arlington se altrove c’è posto? «Perché qui sono sepolti reclute e presidenti: è quell’idea egalitaria che tiene insieme l’America», spiega ancora il maggiore Way. Due presidenti (William Taft e John Kennedy: accanto c’è il fratello Bobby), tre astronauti, George Marshall, Omar Bradley, l’urbanista che disegnò Washington, l’esploratore che mappò il Grand Canyon, l’inventore del vaccino antipolio Albert Sabin che era stato un medico militare. Insieme al milite ignoto, «il soldato conosciuto solo da Dio», raccolto nelle trincee delle Fiandre del 1918; e a migliaia e migliaia di lapidi bianche con i nomi di semplici G.I. che hanno combattuto tutte le guerre americane a partire da quella civile.
Arlington era la piantagione di Robert Lee. Quando il generale passò all’esercito confederato, il governo nordista la sequestrò e nel 1864 la trasformò in ossario per soldati senza nome. Per la sua vicinanza ai campi di battaglia della guerra di Secessione – Gettysburg è a cento chilometri – Washington non aveva più posto nei suoi cimiteri. Più tardi furono gli ufficiali a chiedere di essere sepolti accanto ai loro uomini. Sotto la neve, accanto a migliaia di commilitoni della rainbow nation americana, riposa il capitano Humayun Khan, ucciso in Iraq nel 2004. La sua memoria era stata offesa da Donald Trump in un comizio elettorale. «Guardi le tombe dei patrioti coraggiosi che sono morti per difendere l’America – disse al presidente il padre del giovane ufficiale -Vedrà ogni religione, ogni sesso, ogni etnia». È così che Arlington è diventata Arlington.
In Italia, tutto questo ci sfugge. Il legame fra l’America e i suoi militari ci sembra una manifestazione retorica. In uno stadio di calcio non vedremmo mai marciare un plotone di alpini tornati da Kabul. Nel Veterans Day ogni partita di football incomincia con marce, bandiere grandi quanto il campo di gioco, fanfare, inni e passaggio d’aerei a bassa quota. Ad eccezione del Vietnam, ma solo alla fine degli anni 60, la gente rispetta e in moltissimi casi venera anche chi ha combattuto guerre opache, quasi perdute, come l’invasione dell’Iraq del 2003.
L’estate scorsa le autorità hanno condotto un sondaggio aperto al milione e 700mila associati al Veterans of Foreign Wars, ai 2,3 milioni di reduci dell’American Legion e a chiunque avesse voluto dire la sua. Che fare perché Arlington funzioni per altri 150 anni? Dalla montagna di risposte si deduce che pochi vogliano rinunciare al diritto di sepoltura in quel cimitero. Ma la soluzione è tanto evidente quanto dolorosa. «Credo che prima o poi saremo costretti ad accogliere solo i caduti in combattimento», dice il maggiore Way, incapace di nascondere un senso di colpa: come se la responsabilità di due secoli di guerre americane pesasse tutta sulle sue spalle.