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 2019  gennaio 13 Domenica calendario

Biografia di Walter Pedullà raccontata da lui stesso

Ciò che colpisce di Walter Pedullà è il senso teatrale delle idee, il modo figurale, a tratti carnevalesco che ha di raccontarsi. Corposo nel fisico e nelle parole, sciorina la sua storia come il romanzo che non ha mai scritto. Pudore? Accortezza? Rassegnazione? Quale sia il motivo che ne ha frenato la scrittura narrativa quest’uomo, entrato nell’ottantanovesimo anno, conosce l’arte del dettaglio. È stato critico militante ma anche intellettuale disorganico, uomo di potere e di contropotere: presidente della Rai e professore universitario, letterato da caffè e di redazione, uomo del sud e di mondo, Pedullà racchiude le molte facce di una vita lunga e realizzata. Non c’è rammarico, senso di colpa, desideri inevasi, in quest’uomo che l’inconscio ha per lo più ignorato.

Vivi bene questa fase dell’età?
«Non mi lamento. Perché dovrei? Esco da qualche acciacco di troppo e con la consapevolezza di aver fatto cose buone. Non geniali. Ma sufficienti per assolvermi. O meglio: accettarmi. Sono un uomo del sud che ha lottato contro parecchi pregiudizi. L’ho fatto credendo in alcune battaglie: vincendone alcune e perdendone altre. Se cerchi l’oro devi rassegnarti a tirare su anche la terra. Lo ha detto Pirandello, altro uomo del sud. Ma universale».
Dove sei nato?
«A Siderno, un paesino della Locride. Settimo figlio di un sarto che doveva lavorare 14 ore al giorno per mantenerci. Quando un mio fratello partigiano morì, diventammo tutti comunisti. Non proprio tutti, nel senso che conservai qualche dubbio».
Come te lo chiaristi?
«Con un viaggio in Unione Sovietica. Era caduto da un anno Krusciov. Fummo invitati a un convegno dell’unione scrittori russi. Oltre a me, Luciano Della Mea, fratello di Ivan, e Renzo Rosso, uno scrittore triestino. La prima delusione fu quando ci portarono a visitare una fabbrica. Entrammo in un edificio imponente e fummo dirottati alla catena di montaggio. Scorreva con una lentezza esasperante. E io dissi ammirato a Luciano: vedi, il socialismo è questo, uguaglianza sociale e lentezza. Poi ci spiegarono che la catena non poteva andare più veloce a causa del fatto che mancavano i pezzi».
Fu la prima delusione?
«Ma non l’unica. Finalmente fummo ammessi con tutti gli onori al congresso degli scrittori. Si erano aggiunti Romano Luperini e Alfredo Giuliani. Discorsi interminabili, da finire sotto il tavolo. A un certo punto, non ricordo chi di noi disse: ma l’impegno, compagni, dobbiamo rivalutare o no l’impegno dello scrittore? Ci fu silenzio. Poi il presidente parlò e si riferì al paesaggio circostante, alla splendida natura e così concluse: l’impegno oggi è questo, cari compagni, l’arte si occupi delle bellissime betulle!».
Voi come reagiste?
«Eravamo frastornati, allibiti. Un funzionario ci invitò a pranzo e a un certo punto Luciano gli chiese: qual è la lezione che dobbiamo portare ai nostri figli? E quello rispose: amate la patria».
Che anno era?
«Il 1965. Lavoravo per la rivista Mondo nuovo, che in pratica era fatta da Vittorio Foa, anche se diretta da Lucio Libertini. Ero un comunista sui generis. Lo ero diventato seguendo l’esempio di Giacomo Debenedetti, il mio maestro».
Tornerei per un momento alla tua Calabria.

«Rimango in Calabria fino al 1956, l’anno della morte di mio padre. Ero già laureato da un paio d’anni con una tesi su Gramsci critico letterario. Durante l’università mi mantenevo dando lezioni private. Spesso mi alzavo alle 4 del mattino: prendevo il treno, poi il traghetto. Alle nove ero all’università di Messina. Entrare in quel luogo mi faceva l’effetto di un bagno purificatore».

Ti purificavi da cosa?

«Ho sempre amato la mia terra, il mio paese che era abbastanza ricco e consentiva, a chi ne avesse avuto, voglia di crescere. Però considera che quei luoghi non erano del tutto al riparo della criminalità. Bastava poco perché le fazioni si incendiassero. Con grande uso di coltelli e fucili. C’era un capo ’ndrangheta molto temuto. Si chiamava Antonio Macrì. Lo vidi una volta avviarsi da solo con un pugnale e affrontare tre giovinastri armati che sparavano per pura provocazione. Li mise a posto».
Vuoi dire che quello era il solo potere che lì riconoscevano?
«Lo Stato era per lo più assente e quello mafioso era un potere di parte. Un anno scoppiò una faida tra diverse famiglie. Contarono alla fine 25 morti. Sembrava peggio di Chicago».
Tanta violenza per cosa?
«Per il potere, per il controllo del territorio, e perché la criminalità stava cambiando pelle. Ne fece le spese anche Macrì. Fu ammazzato in un agguato. Non voleva che le ’ndrine entrassero nel mercato della droga. Ma le nuove generazioni di mafiosi puntavano all’arricchimento facile e violento. Non c’era più spazio per il vecchio ordine. Chi poteva andava via. Agli inizi degli anni Cinquanta ero segretario della Camera del Lavoro. Mi occupavo delle paghe dei braccianti. E, ti assicuro, viste le condizioni disumane, che quelli che potevano migravano a Nord. Gli altri li si difendeva come si poteva».
Quanto ha contato questa esperienza nel tuo lavoro intellettuale?
«Ha contato per l’impegno che non è mai stato quello del socialismo reale e che ho arricchito grazie al magistero di Debenedetti».
Lo hai conosciuto all’università?
«Fu Saverio Strati a consigliarmi di seguire le sue lezioni su Svevo. Era un mago della parola. Seguivo a bocca aperta le sue evoluzioni acrobatiche. Un raffinato senza eguali, in quelle contrade. Si distingueva per l’estrema eleganza. E non solo intellettuale. A Messina d’inverno girava con il montgomery».
Chi altro c’era in facoltà?
«Lo storico Santo Mazzarino, il geografo Lucio Gambi e Galvano della Volpe, che chiamò a insegnare Lucio Colletti, Mario Rossi, Nicolao Merker e Raniero Panzieri. Sembrava la succursale del marxismo eretico».
Che ricordo hai di Della Volpe?
«Un uomo sprezzante, con un caratteraccio che esibiva ogni volta che poteva. Debenedetti ci portava al cinema e se veniva Della Volpe bisognava stargli lontano. Non faceva che borbottare. Se si andava a vedere una mostra, puntualmente Della Volpe scuoteva il capo e diceva a Debenedetti: ma perché perdi tempo con questi torsi? Alla fine si era inimicato tutta l’università. Fu ribattezzato Von Fuchs per via di quel libro piuttosto grottesco che scrisse durante la guerra: L’estetica del carro armato».
Pensi che gli intellettuali che hanno agito durante il fascismo debbano vergognarsi di alcune loro scelte?
«Sai, è facile contestare certi atteggiamenti che consideriamo deplorevoli solo perché magari non c’eravamo. Mi consola pensare che nessuno è al riparo dalla stupidità, dall’abbaglio, dal fraintendimento. E perfino dal fanatismo. La nostra storia non è né inferiore né superiore alla loro. È solo una storia diversa».
La storia di Debenedetti, per tornare al tuo maestro, fu molto complicata.
«Non era amato. Non lo era dal partito comunista in cui militava e non era amato dai colleghi universitari».
Secondo te perché?
«Era troppo intelligente. Le sue lezioni su Montaigne, su Proust, sulla poesia europea, l’uso che faceva della psicoanalisi e di Freud mostravano uno studioso molto avanti rispetto al piccolo cabotaggio del marxismo di quegli anni. Debenedetti ci aprì la mente. Quando pensò di concorrere per la cattedra a Roma sperava nell’appoggio del Pci».
Chi avrebbe dovuto sostenerlo?
«Ovviamente Natalino Sapegno del quale era stato amico negli anni torinesi. Invece Sapegno appoggiò Carlo Salinari, che era stato gappista durante la resistenza ed era il responsabile della sezione cultura del Pci. Non vorrei però ridurre quell’episodio a un fatto ideologico. Sapegno era intimamente convinto che Debenedetti non meritasse la cattedra per il semplice motivo che si era spinto troppo oltre i canoni culturali professati dal partito. Li faceva sentire vecchi nel loro crocianesimo in ritardo».
Quando ti trasferisci definitivamente a Roma?
«Nel 1958. Lavorai prima come redattore per Mondo nuovo, poi Pietro Buttitta mi offrì un posto all’Avanti. Facevo il critico letterario. Leggevo e scrivevo di tutto. Nel frattempo Debenedetti era riuscito finalmente a venire a Roma, ma non come professore ordinario. Mi chiese di fargli da assistente. Morì nel gennaio del 1967 per un infarto. A lui devo la conoscenza di molti scrittori tra cui Gadda».
Che impressione ti fece Gadda?
«Quella di un grande soprammobile che non potevi ignorare. Era l’anno della pubblicazione del Pasticciaccio un libro memorabile. Eravamo nel salotto di casa di Debenedetti. Mi avvicinai. Gadda, imponente e schiantato su una poltrona. Si alzò a fatica, deferente, come se quel giovane sconosciuto che gli si parava davanti fosse un capo di Stato. Gli dissi chi ero. E lui, molto complimentoso chinò la testa. Gli feci delle domande sul romanzo. Taceva, anzi borbottò qualcosa quasi per scusarsi. Poi più niente. Restai muto per timidezza. Lui restò muto per necessità. Credo che alla sua indiscussa grandezza corrispondesse una nevrosi che lo rese infelice».
Un altro scrittore, di cui ti sei occupato a lungo, che è un po’ sulla linea di Gadda è Stefano D’Arrigo.
«Anche D’Arrigo lo conobbi tramite Debenedetti. Quando lessi i due capitoli dell’Horcynus
Orca che uscirono con il titolo I giorni della fera, mi resi conto di quale straordinario impianto lessicale c’era dietro. Protestai perché Vittorini fece apporre un glossario, neanche fosse un Pasolini qualunque!».
Per scrivere "Horcynus" impiegò molto tempo.
«Quasi vent’anni. Ricordo che il vecchio Arnoldo Mondadori, incuriosito dallo scrittore, di cui Vittorini aveva raccontato meraviglie, mi chiese di accompagnarlo sull’altipiano di Arcinazzo dove D’Arrigo si era confinato in un piccolo alberghetto. Durante il viaggio in macchina, Mondadori chiese di illustrargli il romanzo e perché gli occorresse tutto quel tempo. Per impressionarlo gli dissi: commendatore, ha presente Joyce? Chi è Joyce? Ha presente Melville? E chi è Melville? Ha presente l’epica e complicata grandezza di uno scrittore? Ecco, D’Arrigo è come un immenso fiume, ricco di anse, ce ne vuole di tempo per arrivare al mare».
E lui?
«Mi guardò dubbioso. E poi disse: speriamo almeno di farci un bel bagno. Quando arrivammo ad Arcinazzo, D’Arrigo lo vide e la prima cosa che fece fu abbracciarlo e nel farlo mise la testa sul suo petto. Il vecchio burbero si sciolse. Poi guardò sul tavolo le bozze disordinate e disse: Pedullà, ho cominciato con D’Annunzio voglio finire con D’Arrigo. Gli aumentò anche lo stipendio, da 80 a 200mila lire. Ma non fece in tempo a vedere il risultato. Il vecchio editore morì nel 1971 e Horcynus avrebbe visto la luce quattro anni dopo».
Il romanzo ebbe accoglienza trionfale dalla critica e modeste vendite. Un incompreso?
«Semplicemente uno scrittore non facile, con una lingua mai ascoltata prima. Io ho quasi finito di curare le sue opere complete. Nelle varie edizioniHorcynus ha venduto centinaia di migliaia di copie. Un romanzo davvero strano. Irregolare. Isolato. Irripetibile».
Perché?
«Sembra prolisso ma finisce col ridursi a un’unica cosa. Materia fonica che si disperde come acqua di mare. Un mare senza porti».
Uno scrittore così singolare da dove nasceva?
« Era figlio della tenutaria di un bordello di Messina. Invece di deprimerlo quella circostanza liberò la sua fantasia. Lui racconta dell’impronta matriarcale della comunità delle bagnarote».
Bagnarote?
«Donne libere, femminote che commerciavano viaggiando di paese in paese. E una di esse racconta di essere posseduta sentendo gli stantuffi del ferry boat. Un vero monumento alla sensualità».
A parte Gadda e D’Arrigo, chi metti sul podio?
«Alberto Savinio. Un posto speciale però lo riservo a Italo Svevo».
Quanti libri hai scritto?
«Una trentina, forse troppi».
Scrivevi anche quando eri presidente della Rai?
«Ti ricordi quando Nenni entrò al governo e chiese dov’era la stanza dei bottoni? Beh, non c’era nessuna stanza dei bottoni. Così alla Rai non avevo nessun vero potere e molto tempo per scrivere».
Sei soddisfatto di quello che hai scritto?
«Libri di qualità diseguale. Mi accorgo di essere diventato un grafomane. Correggo, correggo. Quasi non faccio altro. Ho l’impressione che le grandi idee si siano tenute alla larga da me. Perciò cerco di migliorarmi con la scrittura. Ho un tasso figurale altissimo. Metafore a non finire e paradossi. Mi piacerebbe essere stato più intelligente».
Come giudichi i nostri scrittori odierni?
«Mi pare che quasi tutti scrivano benino. Peccato che sia un fatto detestabile, come osservava Baudelaire. Esiste una cultura media di buona qualità. Ma si rassomiglia troppo. Non chiedo il capolavoro, ma qualche deviazione dalla norma sì».