A proposito, tra i testi che lei ha scritto qual è quello di cui è più soddisfatto? Alcuni sono molto complessi ma non è detto che siano i più amati…
«In effetti è così. Per esempio, Quali alibi è un testo dell’ultimo disco, Acrobati, di cui sono orgoglioso, però quasi come fossi un matematico che riesce a risolvere delle equazioni difficili, perché è un gioco stilistico certosino che lavora sulle sillabe delle singole parole. Deriva dal mio gusto per l’enigmistica. Però sono più attaccato a cose che hanno dentro un po’ di fantasia, di poesia, come Aria appunto, una canzone baciata da un po’ di fortuna, un pezzo in cui testo e musica procedono così bene da sembrarmi ancora oggi quasi magiche, nate come spesso accade in questi casi in un unico flusso senza quasi correzioni. Oppure L’autostrada, che è molto emotiva, è un racconto. Nell’ultimo disco, La mia casa è un tentativo di usare le parole per parlare più ai sensi che alla testa. Non so se ci sono riuscito. Però ecco, se riesco a far sentire l’ascoltatore dentro una storia che racconto, per me quello è un pezzo che funziona».
So che suo padre era uno scrittore e autore televisivo: le ha trasmesso lui la passione per le parole? Lei le usa in maniera estremamente articolata.
«Sì, io e mio padre spesso facevamo il gioco di parlarci in rima perché lui aveva uno straordinario gusto per le filastrocche che evidentemente mi ha trasmesso».
Partendo da Gianni Rodari?
«All’inizio sì ma poi in modo completamente autonomo. In questo disco c’è un pezzo su cui ho iniziato a lavorare partendo da una vecchissima raccolta che si intitolava Ancora e poi basta molto famosa negli anni 30, curata da Lina Schwarz, un’autrice strepitosa nell’interpretare l’immaginario infantile che ha inventato alcune filastrocche che poi si sono tramandate. Io ne ho usata una che si intitolava Zuccone e diceva: "Ho detto di no e non lo farò/ che se per natura la testa l’ho dura/ cambiar non si può/ ho detto di no". Da lì mi è venuto in mente Matteo Salvini e... Ascolterete!».
Quel rapporto con la filastrocca mi sembra sia rimasto importante: basti pensare a un pezzo come “Stizzisciti” in cui lei passa in rassegna un bel po’ di scioglilingua.
«Beh sì: il marchingegno della rima per me è, come diciamo a Roma, uno “spalancacapoccia” perché sia la regola che la necessità di usare l’immaginazione ti costringono a pensare alle parole che usi in un altro modo e questo per me è affascinante, perché fa scattare associazioni assolutamente impreviste».
Tra i cantautori c’è qualcuno che l’ha influenzata?
«Beh, io sono cresciuto ascoltando e riascoltando Lucio Dalla, soprattutto il primo, magari meno noto ma che ha fatto cose strepitose e che per me è ancora adesso un esempio incredibile di libertà di musica e di scrittura. Con lui c’era già un’amicizia di famiglia grazie a mia madre e quando ho fatto il primo Sanremo in hotel ho trovato un suo messaggio che mi faceva i complimenti per L’uomo col megafono. Ce l’ho ancora da parte: per me è stato il premio più importante della mia carriera».
Lei a quel Sanremo arrivò ultimo.
«Certo: giustamente! Poi ci ho provato altre volte ma non ce l’ho più fatta...».
Sempre a proposito di Sanremo, che cosa ne pensa della polemica sui migranti che sta coinvolgendo Claudio Baglioni?
«E che cosa vuole che dica. Premettendo che sono tra i fondatori di Every child is my child, una onlus nata per dare sostegno ai bambini vittime delle guerre con azioni concrete, da sempre faccio anch’io parte di questa “sovversiva” schiera di cantanti che credono di potere perfino esprimere delle opinioni. E sono anche abituato a sentirmi criticare per questo. Anzi, nel singolo appena pubblicato a un certo punto il fan protagonista mi dice " detto fra noi, lascerei stare le opinioni — anzi se puoi concentrati sulle canzoni". Ma tornando alla domanda... nella fattispecie condivido anche il contenuto delle parole di Claudio, ma il punto è che soprattutto condivido e difendo l’opportunità di pronunciarle».
Lei, Max Gazzé, Niccolò Fabi e altri con "Il locale" avete portato avanti la tradizione del Folkstudio di De Gregori, Venditti, Grechi...
«Da noi non c’erano solo musicisti ma anche attori, scrittori, fotografi. C’erano Valerio Mastandrea, Pierfrancesco Favino, Angelo Orlando, Massimiliano Bruno. Quasi tutti ce l’hanno fatta. Poi queste cose finiscono senza che ci sia un vero perché».
Max Gazzè suonava il basso con lei.
«Sì, ci conosciamo da una vita. Il Locale di Vicolo del fico era questo: continue jam session, che fossero cose nostre che nascevano o canzoni altrui».
Qualche anno fa avete fatto anche un disco e un tour con Niccolò Fabi.
«Il primo amo l’ha lanciato Niccolò e poi forse sono stato io: era un po’ come una promessa implicita di vent’anni prima ma non l’abbiamo resa pubblica finché non ci siamo resi conto che funzionava davvero. È iniziata con un viaggio in Sudan fatto insieme dove la musica aveva un’importanza marginale perché avevamo bisogno anche di capire a che punto eravamo nelle nostre vite come uomini. Ha funzionato».
E con Carmen Consoli?
«Non c’è stato un lavoro di scrittura insieme ma abbiamo fatto i musicisti uno dell’altro. Carmen non può concepire di suonare male i pezzi di un altro musicista così suonava lo stesso pezzo per ore finché non arrivava alla perfezione assoluta. Max invece ha un senso di leggerezza incredibile: è un bassista di livello internazionale ma non vive le cose con senso di responsabilità (ride, ndr)».
È contento di quello che ha fatto e che fa?
«Volevo fare musica ma non volevo per forza essere un cantante sotto i riflettori. Anche oggi la musica è quello che continua a incuriosirmi pure se, in venticinque anni, di canzoni ne ho scritte veramente tante. Non voglio fare quello che so già per cui cerco di disseminare la strada di ostacoli per far succedere cose sempre nuove».