«Da ragazzo correvo, mezzofondista, 800 metri. Era bravo, ma non abbastanza, e non ho insistito per diventare un campione. Né ho mai seguito una gara ciclistica, mi sono limitato a leggere qualche biografia e un po’ di cronaca sui giornali. Non mi interessava la fama, la gloria, il successo, non volevo scrivere sulla fatica dei numeri uno, ma sugli altri, su quelli che non lottano per sopravvivere, ma per soccombere. I ciclisti trattano il loro corpo come fosse il pezzo di un motore, sono ossessionati da quanti watt può generare la loro pedalata ma una gara come il Tour ha bisogno anche di irrazionale romanticismo. È facile capire cosa motivi tipi come Federer, Froome, Simone Biles, hanno talento, ma agli altri, a quelli che corrono in gruppo, che non sono nati per vincere, ma che si allenano per stare al servizio del capo, chi glielo fa fare? I perdenti per mestiere, i geneticamente programmati per non arrivare primi, soffrono come gli altri, stando sempre nell’ombra. Cosa li porta a quel ruolo?».
In un mondo che ama i vincenti, lei ha guardato oltre.
«Sol, il personaggio, ha 29 anni, è sposato con Liz, una genetista, estranea allo sport e ai suoi riti, ma forse incuriosita dal fatto che mentre nei test in laboratorio bisogna aspettare molto per sapere se la propria tesi è giusta, alla fine di ogni corsa c’è un traguardo che ti dice sinceramente chi sei. Sol è un gregario, si dedica onestamente a fare il suo lavoro, non sogna di più, vuole solo essere utile alla squadra, ubbidisce agli ordini del direttore sportivo. Non è scontento, non vuole cambiare posto, quando in albergo un uomo gli chiede l’autografo lui domanda: mi ha scambiato per qualcun altro?».
Viene in mente il maggiordomo inglese in Quel che resta del giorno.
«Ho letto il libro di Ishiguro che è dell’ 89 mentre scrivevo il mio. E lì c’è Mr. Stevens, uomo felice di servire, che annulla qualsiasi altro sentimento, lo ritiene incompatibile con la sua missione, soffoca perfino le scosse del suo cuore. Cerca la perfezione, tanto da sacrificare sull’altare della dignità e del controllo ogni ipotesi di felicità. Sol, il mio protagonista, non vive in un autismo del ruolo, è contento di stare nel gruppo».
Non un Salieri che invidia Mozart.
«Sol vive per il gruppo, si impone una disciplina, non è un ribelle, gli va bene prodigarsi per i campioni, non cerca di mettere la sua firma sulle imprese, ama Liz e la sua professione, ma resta perplesso quando lo spingono a usare un trucco e si arrabbia quando a sua moglie viene proposto di fare il corriere di sacche di sangue per le trasfusioni del doping».
Gregario e succube?
«Se lui non ambisce ad avere un posto più in alto, la moglie invece è diversa, è ambiziosa, vuole vedere progressi, per lei il doping non è il lato oscuro dello sport, ma una pratica che rientra nel mestiere. E crede che i conti debbano sempre tornare».
Tifosi di Coppi astenetevi?
«Non volevo un romanzo sulla mitologia sportiva, su chi sia Ettore sulle due ruote, non m’interessava il ciclismo eroico delle salite e delle fughe, quello sotto la neve e sulle cime aride. Il ciclismo è un pretesto che diventa contesto. Sol, il protagonista non rimpiange né è immerso nei leggendari vecchi tempi, quella non è la sua atmosfera. Ma c’è un piccolo omaggio a Marco Pantani, appassionato di karaoke, di cui avevo letto l’ottima biografia di Matt Rendell. Infatti un corridore nel mio libro canta Io vagabondo, una delle sue canzoni preferite».
Il documentario Wonderful Losers del lituano Matelis corre per l’Oscar.
«Non lo sapevo e non lo conosco. Ma sono contento se altri riflettono su chi si annulla, senza avere in cambio benefici di fama. Ho visto The program, il film su Lance Armstrong, su quella che sembrava una bella favola. Si credeva che tante situazioni fossero solo fantasie, magari perverse, invece si sono dimostrate reali: una moglie, fidanzata, madre che trasporta farmaci illegali al proprio caro? Già successo. La domanda non è essere o non essere: ma come può un’ambizione collettiva portare un individuo a compromettersi moralmente».