la Repubblica, 13 gennaio 2019
Alla messa infinita per salvare i rifugiati
Il sermone più recitato è ovviamente quello del buon Samaritano, perché quanto accade nella chiesa evangelica di Bethel è proprio un atto di misericordia e compassione verso il prossimo, nel caso specifico verso una famiglia armena che vi ha trovato rifugio nel momento in cui le autorità olandesi volevano rispedirla in patria. «Ho perso il conto delle volte che abbiamo citato la parabola di Gesù», dice Axel Wicke, il giovane pastore del tempio della via Thomas Schwencke, un palazzetto anni Trenta in un quartiere residenziale dell’Aia.
Dal 26 ottobre scorso, dandosi il cambio giorno e notte con altri 750 preti, pastori e diaconi, il pastore Wicke recita ininterrottamente messa per impedire la deportazione dei Tamrazyan madre, padre e tre figlie di 15, 19 e 21 anni – grazie a una legge del Paese che impedisce alla polizia di penetrare in un luogo di culto durante una funzione religiosa. «La nostra comunità ha deciso di accoglierli per onorare il principio di apertura e ospitalità, ma non mi aspettavo tanta solidarietà. A darci una mano sono arrivati sacerdoti cattolici, protestanti ed evangelici perfino dall’estero, e adesso diciamo preghiere anche in italiano, francese, tedesco e inglese».
L’interno della chiesa Bethel è spoglio. Il pulpito è un tavolino di legno sul quale arde un grosso cero. Sul grossolano mosaico di mattonelle che riveste l’abside giganteggia invece la foto di una donna con in braccio il suo bimbo, entrambi avvolti in una coperta di sopravvivenza, quelle dei migranti salvati in mare. Per accedervi si passa dalla cucina della parrocchia, dove in attesa che venga il suo turno sosta una mezza dozzina di religiosi, per lo più anziani ma non per questo meno determinati. Il pastore Wicke ha sistemato i Tamrazyan al primo piano, in sacrestia, ed è dovuto ricorrere ad un addetto stampa sia per proteggere i suoi ospiti sia per smistare le richieste di intervista che giungono da tutto il pianeta. Per evitare che attorno all’evento della messa-maratona si crei un circo mediatico, in chiesa i giornalisti possono entrare solo su appuntamento.
Nell’ora in cui c’è consentito di assistervi, tra un canto e una lettura riusciamo a scambiare due parole con Hayarpi, la sorella maggiore delle Tamrazyan. È una ragazza minuta, dallo sguardo triste. Dice: «Non posso uscire altrimenti rischio di essere arrestata e rispedita in Armenia, dove non riuscirei mai a integrarmi. Siamo arrivati in Olanda più di 8 anni fa, e qui abbiamo costruito il nostro mondo, abbiamo i nostri amici, le nostre abitudini». Hayarpi è iscritta in Econometria all’università dell’Aia ma due mesi fa è stata costretta ad abbandonare gli studi. «Pregando riesco a dimenticare i miei problemi e il grande sostegno che riceviamo da tutti ci dà forza, ma ho comunque tanta paura».
Nel 2010, dopo essere fuggito da Erevan perché oppositore politico del regime post-comunista che governava l’Armenia, suo padre sbarcò in Olanda portandosi appresso l’intera famiglia. Più volte il governo dell’Aia aveva cercato di rispedirla indietro, senza mai riuscirci. Fino al 25 ottobre scorso, quando pensava di aver finalmente raggiunto il suo obiettivo negandogli il cosiddetto children’s pardon, che consente alle famiglie con bambini residenti nei Paesi Bassi da più di 5 anni di ottenere un permesso di soggiorno. Come accade ogni anno alla metà delle oltre tremila richieste di asilo, è stata rifiutata anche quella dei Tamrazyan.
La durezza della legge olandese sull’immigrazione è del resto nota. Lo scorso settembre, per ostacolare la decisione di espellere due adolescenti armeni residenti da anni nel Paese è servita una petizione con 200mila firme. E solo dopo un aspro dibattito in Parlamento il governo del liberale Mark Rutte è stato costretto a concedere ai ragazzi il permesso di restare: ci sono oggi 400 bambini a rischio deportazione, sebbene molti di questi abbiano vissuto gran parte della loro vita in Olanda, frequentino scuole olandesi e parlino soltanto il fiammingo. Il sottosegretario alla Giustizia Mark Harbers ha recentemente dichiarato che la messa-maratona non scalfisce l’intransigenza del governo sul caso Tamrazyan.
Eppure, secondo il pastore Derk Stegeman, portavoce improvvisato della chiesa Bethel, nonostante la linea dura ostentata dall’esecutivo, molti suoi esponenti sarebbero pronti a cedere anche stavolta. «Del resto, come può un Paese che si dice civile accettare che venga inflitto tanto dolore a dei ragazzi deportandoli in una terra che è per loro diventata straniera?», spiega Stegeman. «Ai Tamrazyan noi cerchiamo di offrire conforto e speranza e in attesa che la loro richiesta di asilo venga riesaminata andremo avanti finché sarà necessario».
In tanta risolutezza si può anche leggere la riconoscenza della chiesa cristiana locale agli immigrati, perché sono loro che le hanno fornito nuova linfa dopo le copiose emorragie di fedeli degli ultimi decenni. Con quest’atto di disobbedienza civile il clero olandese dimostra anche la forza della sua fede. E che un’altra Europa esiste.