Corriere della Sera, 13 gennaio 2019
In morte di Folco Portinari
«Sono un letterato, e mi piacciono le parole. Quelle dei poeti, è ovvio, ed è altrettanto ovvio che faccia i conti con Orazio e con i suoi vini…». Così Folco Portinari metteva insieme le sue due passioni, solo apparentemente lontanissime: la letteratura e l’enogastronomia. E così si spiega perché non si sa, quando si pensa a Portinari, se dare più peso all’autore, con Carlin Petrini, del Manifesto di Slow Food (era il 1987) o allo studioso o piuttosto alla voce del poeta che scriveva versi ironici fino al paradosso, ma carichi di umori morali e civili.
Nato a Cambiano, in provincia di Torino, il 25 gennaio 1926, da un padre, pavese dell’Oltrepò, che esercitava la professione di enologo, Portinari è morto ieri a Milano dopo aver vissuto una vita non classificabile entro un’etichetta definitiva. Durante gli studi universitari (si laureò con Giovanni Getto con tesi su Giuseppe Ungaretti), fu giocatore di calcio nelle giovanili del Torino tirando calci al pallone con Valentino Mazzola. Insegnò in un liceo di Vercelli quando già portava, come amava dire, «baffi di ascendenza georgiana» che non avrebbe mai abbandonato. Nel ’54 fece un concorso e fu assunto in Rai. Ben prestò si trasferì nella sede torinese, dove sarebbe diventato pima responsabile della cultura e in seguito vicedirettore. Diviso tra il giornalismo e gli studi accademici (occuperà la cattedra di Letteratura moderna e contemporanea all’Università di Torino dal ’68 al ’76); militante nelle riviste letterarie più importanti, da «Paragone» al «Verri», fondatore lui stesso di riviste con amici poeti e critici come Luciano Erba, Giorgio Luti, Claudio Gorlier, Giorgio Bàrberi Squarotti, curò nel 1956 per Zanichelli, con il suo maestro Getto, un’antologia di poesia da Giosue Carducci ai contemporanei per le scuole superiori. La sensibilità nei confronti della letteratura in corso era favorita, in Portinari, da un sodalizio determinante come fu quello con Luciano Anceschi, il quale divenne nel tempo vero e proprio «fratello maggiore» suo come di tanti letterati suoi coetanei.
Precoce autore di monografie su Umberto Saba, Ungaretti, Ippolito Nievo, a Portinari si deve anche l’edizione einaudiana de El nost Milan di Carlo Bertolazzi, piccolo capolavoro del teatro dialettale, che negli anni Cinquanta fu portato sulla scena del Piccolo Teatro da Giorgio Strehler con Tino Carraro. Se Portinari non lascerà mai la critica militante (esercitata con intelligenza sulla «Stampa», sul «Corriere della Sera», su «Panorama», sull’«Unità» e sul «Diario»), è vero che la sua attenzione di studioso andrà rivolgendosi sempre più verso la cultura sette e ottocentesca tra teatro, narrativa (Alfieri, Manzoni), saggistica e librettistica. La musica è del resto l’altra passione coltivata in famiglia accanto al gusto per la tavola, al quale nel 1986 dedicherà un divertito «gastroromanzo» dal titolo Il piacere della gola.
Proprio in quel giro d’anni sarebbe arrivato il Manifesto del mangiare lento, sano e conviviale stilato con Petrini e sottoscritto subito da star della cultura, della politica e dello spettacolo come Valentino Parlato e Dario Fo, Gina Lagorio e Francesco Guccini… Nel 2000, ricordando lo slancio in famiglia per il mangiare e per il bere, Portinari ricordava: «Finché è vissuta mia madre, per il mio compleanno si apriva una bottiglia di Falerno del Massico, oraziano per eccellenza. Era un rito che tento ancora di mantenere. Era un omaggio al figlio poeta, perché mia madre era romagnola e avrebbe preferito un sangiovese…».
Il gourmet, l’intellettuale curioso e divertito, il poeta che scriveva versi oraziani un giorno del 1998, al Salone del gusto di Torino, comperò un pezzo di carne di canguro sufficiente a sfamare la sua tribù di figlie, genero e nipoti. Chiese a sua moglie di cucinarlo in civet, come il capriolo. Non fu troppo stupito nel trovarlo «saporito, tenero e anche dietetico».