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 2019  gennaio 13 Domenica calendario

Biografia di Livia Pomodoro raccontata da lei stessa

Presidente Livia Pomodoro, lei era capo di gabinetto del ministro di Grazia e Giustizia quando la mafia trucidò Giovanni Falcone, la moglie Francesca e i ragazzi della scorta. Due mesi dopo toccò a Paolo Borsellino. Come visse quei mesi nel cuore dello Stato colpito dalla mafia? 
«Giovanni mi convinse ad accettare l’incarico. Il ministro Claudio Martelli voleva creare una direzione nazionale antimafia, una anticorruzione, una per le forze di polizia... gli serviva una persona competente. Tentennavo, Falcone mi telefonò: “Arrivo anch’io, lavoreremo bene insieme”. Accettai e furono anni durissimi. Alla 8 di mattina il presidente Cossiga mi tirava le orecchie se non avevo già letto i giornali. Martelli rimproverò me e Falcone di andare troppo spesso a colazione dal Presidente. Nella primavera del ’92 mi ruppi i legamenti della caviglia e fui costretta a muovermi in carrozzella. Ogni venerdì, Giovanni lasciava sul mio tavolo i dossier : “Se sono da te, sono più tranquillo”. L’ultimo maledetto venerdì disse: “Vado a pescare il tonno”. “Faresti meglio a riposarti” risposi, e partii per Milano con Liliana Ferraro, sua vice, che sarebbe stata mia ospite. La notizia ci travolse nel pomeriggio. Liliana partì per Palermo, io per Roma. Convocai dall’ultimo usciere al primo funzionario sul grande scalone. Dovevamo reagire. L’indomani partii per Palermo. Rimasi un’ora accanto alla bara, poi tornai al ministero. Qualche giorno dopo, Maurizio Costanzo mandò in onda la sua trasmissione da Palermo. Insistette perché vi partecipassi, ma gli chiesi di rimanere in platea. A un certo punto si spensero le luci e illuminarono me. Costanzo cominciò a farmi domande. Tornando in aereo, Martelli disse: “Quella scena rimarrà impressa nella memoria”. Sbarcati, ci venne incontro il Capo della polizia: “Dobbiamo metterla sotto protezione speciale”. Per due mesi rimasi reclusa nel ministero. Poi uccisero Borsellino. La notte lavorammo all’inasprimento del 41 bis, firmato sul cofano della macchina del ministro». 
Fu quella la sua scuola di vita? 
«In realtà no. Quand’ero giudice della famiglia mi costringevo a tour defatiganti per parlare con la gente: non insegnate ai vostri figli ad essere remissivi, ma a far valere le proprie ragioni con il cervello. Poi divenni capo di un gruppo di procuratori della Repubblica per i minori, ma i poliziotti telefonavano sempre a me. Le racconto una notte qualunque. Squilla il telefono: “Dottoressa, abbiamo trovato per strada una donna nuda, urla e ha un bambino in braccio, pare abbia fame”. Portatela in ospedale e prendete un panino per il piccolo. “Il bambino non mangia perché i genitori gli hanno detto di non prendere cibo dagli estranei”. Cercate il padre. “Suona il clarinetto in un locale notturno”. Andate a prenderlo e portatelo in ospedale. A quel punto, il bimbo azzannava il panino. Poi c’erano le Salomè...». 
Salomè? Chi erano? 
«Salomè era una bella prostituta siciliana. Si vendeva in piazza Diaz e anche in casa. Ci segnalarono che aveva partorito e “lavorava” in presenza del bambino. Mandai un appuntato per un sopralluogo. “La signora Salomè mi ricevette in abito da lavoro...”. In che senso? “Un corpetto con cui esercitava e nient’altro... C’era una culla con bimbo e la suddetta Salomè mi minacciò dicendo di riferire alla dottoressa Pomodoro che gliel’avrebbe fatta pagare”. Per alcuni giorni, alle 5 di mattina squillò il mio telefono: “Puttana, io ho finito di lavorare, adesso comincia tu!”. La convocai nel mio ufficio. C’era la coda, lei era la penultima. Una donna parlava bene di me, sostenendo che aiutavo la gente. Salomè intervenne: “Dopo non aiuterà più nessuno” e mostrò uno stiletto. La donna entrò e me lo raccontò. Chiamai i carabinieri, ma Salomè era scomparsa. Allora me la feci portare in ufficio: “O accetti di mandare a balia il bimbo e di vederlo solo quando non eserciti, o finisci in galera”. Accettò: il bambino tornò a casa quando cominciò ad andare a scuola e Salomè a fare una vita meno in prima linea». 
Come arrivò da Molfetta, dove è nata, a fare il giudice a Milano? 
«Io e mia sorella gemella Teresa siamo nate nel 1940. Avevamo tre fratelli più vecchi, il primo, Giovanni, pilota, non tornò da una spedizione su Alessandria d’Egitto. Mamma sopravvisse al dolore perché eravamo nate noi. Papà era farmacista, inviso al regime. Per punizione lo costringevano a fare i turni di notte. Presto sfollammo in campagna e papà veniva a trovarci per cena. Il mio primo ricordo è di mamma che fa coroncine di lucciole da metterci nei capelli quando arriva papà. Io e Teresa crescevamo in simbiosi, ma eravamo diverse: lei diceva di avere il terzo occhio, era creativa; io prosaica. Aveva le idee chiare e intraprese studi umanistici; io prima volevo fare il medico, poi il diplomatico, infine mi laureai in Giurisprudenza, senza convinzione, ma con 110 e lode e dignità di pubblicazione, perché quando decido di fare qualcosa ci metto l’anima. Partii per Ginevra con una borsa di studio e, tornata, sostenni l’esame per entrare in magistratura, carriera appena aperta alle donne. Giunsi a Milano in una mattina del ’66. Teresa mi avrebbe raggiunta dopo: avrebbe fatto inizialmente la preside e sviluppato la sua passione per il teatro alla scuola di Giorgio Strehler». 
Cominciavano gli anni caldi... 
«Terribili furono i Settanta. Perdevo per strada i compagni di viaggio. Sono finita in molte liste delle BR. Con Guido Galli andavamo al lavoro sulla mia 125 scassata. Dovevamo essere uccisi insieme, ma entrò in azione Prima linea trucidandolo alla Statale e anticipando i brigatisti. Anni dopo ero pm in un processo contro alcuni terroristi. Mentre il presidente era in camera di consiglio, autorizzai un imputato a salutare la sua bambina in aula. Uno di loro mi disse: “Siamo contenti di non averla ammazzata”». 
Non ha mai temuto che lo Stato cedesse? 
«Avevamo l’orgoglio di far bene il nostro mestiere. Io avevo grandi maestri e imparavo dai miei errori. Il presidente del tribunale, Luigi Bianchi d’Espinosa, dopo una delle mie sentenze mi chiamò: “Quando la smetti di scrivere sciocchezze?”, e mi prese sotto la sua ala. Prima di morire mi donò la sua toga rossa. Altro grande maestro fu Adolfo Beria d’Argentine». 
Lei è madre del Codice di procedura penale per i minori, in vigore “intonso” da trent’anni. Come andò? 
«La guerriera che è in me ha lottato anche allora. Fu durante la prima esperienza al ministero con Virginio Rognoni e poi con Giuliano Vassalli. La riforma del Diritto penale era affidata alla presidenza di Giandomenico Pisapia, a me il Codice di procedura penale per i minori. Ritenevo che il Codice per i minori dovesse essere inserito in un capo di quello per gli adulti. Vassalli era contrario: “Livia, passerai alla storia, cosa vuoi di più?”. Non importava: ero convinta che così sarebbe stato meno efficace. Sbattei la porta e mi rintanai sulle colline dell’Oltrepò pavese. Ogni giorno sentivo il mio vice per far progredire il codice e, all’ennesima telefonata di amici che mi imploravano di cedere, scesi dall’Aventino e lo firmai». 
Lei è stata presidente del Tribunale per i minori e poi del Tribunale di Milano, prima donna ad assumere un incarico così importante, tanto da diventare un’icona. Nemmeno in quell’occasione le tremarono i polsi? 
«Venni nominata mentre ero in vacanza con Teresa in Caucaso. Di lì a poco mia sorella sarebbe mancata e solo io sapevo della sua malattia. Il tribunale era una meravigliosa carcassa di nave con solo il timone. Mi rimboccai le maniche per riorganizzarlo e, il 20 agosto 2008, Teresa mi lasciò. Quella notte, disperata, ripensai alla nostra vita. Al mattino ero ancora più determinata: i sogni non possono morire. Mi gettai a capofitto nel lavoro e assunsi la presidenza dello Spazio Teatro No’hma, mantenendo in vita il progetto di Teresa». 
Ci fu anche un marito?
«Mi sono sposata nel ’79 con un collega. Colto, gran viaggiatore. Dieci anni dopo mi propose di ritirarci e passare gli anni successivi in giro per il mondo. “Non è il mio progetto”, risposi, e ci separammo senza drammi». 
È parente di Giò e Arnaldo Pomodoro? 
«Siamo cugini. Per molto tempo loro coltivarono una reciproca incomprensione, ma quando Giò si ammalò, Arnaldo fece un grande gesto: alle Scuderie del Quirinale chiesero una sua opera da esporre all’ingresso di una mostra dedicata ai grandi scultori del Novecento; lui cedette lo spazio a Giò. Io, Teresa, Arnaldo e il suo compagno abbiamo passato molte estati di vacanza insieme a Tangeri. Andavamo in una spiaggia sull’oceano. Teresa, con il suo terzo occhio, ogni giorno perdeva qualcosa. Un giorno perdemmo lei, finché ci accorgemmo di una coda di marocchini in riva al mare che seguiva una donna avvolta da veli. Era Teresa: provava la parte di Elettra e non si accorgeva di essere diventata un’attrazione».