Corriere della Sera, 13 gennaio 2019
Storia della Nunziatura apostolica
Tra le palme e i pini dei tre ettari di parco, la storia ha giocato a nascondino con la cronaca. Qui, dalle finestre della Sala Rossa, oltre i capitelli del II e III secolo, s’intravedono in fondo la rete di recinzione verde e il cartello di divieto d’accesso per lavori: le ossa del mistero le hanno trovate laggiù, l’autunno scorso, quasi alla fontana d’ingresso su via Po, restaurando la vecchia casupola del custode. Si narra che giusto 148 anni prima, i bersaglieri che restituirono Roma all’Italia strappandola al Papa Re a partire dalla breccia di Porta Pia fossero acquartierati su questa collinetta che guarda le mura aureliane, a preparare l’attacco. E siccome la storia sorride di noi, questa meraviglia dell’architettura contemporanea, Villa Giorgina, creata da Clemente Busiri Vici per l’industriale ebreo Isaia Levi, è diventata dal 1959 proprio la sede della Nunziatura apostolica, l’ambasciata del Vaticano nella capitale italiana.
Una luce dal passatoVia Po, civico 27, quartiere Pinciano, villa Borghese a due passi: davanti al maestoso portale trapiantato da Villa Pamphili una camionetta della brigata Sassari sta di guardia e, attorno, Roma sta a cavallo tra antiche nobiltà e moderne miserie, traffico mefitico, buche e spazzatura della nostra decrescita infelice. Al civico 25, palazzina borghese dall’ocra incantevole, stava in affitto trentacinque anni fa un balordo legato alla banda della Magliana: anni di trame e sangue, quelli, di cronaca e fantacronaca persino attorno a pontefici e prelati. Si spiega anche con questa prossimità l’abbaglio giornalistico che per qualche giorno ha trasformato povere ossa innominate nientemeno che nei resti di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, svanite poco più che bambine a fine primavera dell’83 in quella Roma avvelenata di enigmi, tra il Freddo e il Libanese, gli immancabili servizi deviati e il sempiterno Ali Agca, rivelazioni zoppe e deliri complottardi. Giusto il tempo di riempire i tg di fole e i cuori delle povere famiglie di inutili sgomenti. Le ossa, ha dovuto spiegare la Scientifica prima ancora del deposito delle perizie, sono antecedenti al 1964, lo scheletro è di un uomo, i piccoli frammenti accanto non si sa, le condizioni dei reperti sono pessime, nessuno può neppure escludere che questa fosse addirittura una sepoltura della Roma imperiale.
«Certo che mette amarezza finire sui giornali così. Vede, in una zona come questa, basta smuovere un po’ la terra ed esce di tutto...», dice senza malanimo monsignor Giorgio Chezza, primo consigliere della sede diplomatica, che ha curato uno straordinario volume («La Nunziatura apostolica in Italia», Libreria editrice vaticana) in cui è narrata la vicenda di questa tenuta da ventimila metri quadrati che taglia la nostra storia collettiva come un fascio di luce: sarcofagi, lapidi, epigrafi, vestigia romane, un’antica necropoli dei pretoriani, secoli stratificati sotto quest’erba sino all’epoca della nobiltà papalina (coi Sacchetti fu casino di caccia) ed infine sino all’avvento degli uomini nuovi, della borghesia mercantile di cui a inizio Novecento è campione Isaia Levi.
Il tempio del dolore Sa cosa vuole e come ottenerlo questo giovanotto torinese che eredita l’azienda tessile di famiglia e la trasforma in ciò che oggi chiameremmo una holding, perché si spinge dall’editoria fino al cinema. È veloce, Isaia, forse troppo (a cavallo della Prima guerra mondiale sarà tre volte inquisito per disinvoltura negli affari e tre volte sarà scagionato). È prensile nei rapporti. Lui, ebreo per quattro quarti, marito dell’ebrea fiorentina Nella Coen, abbraccia il fascismo, è amico del quadrumviro De Vecchi, intimo di Marcello Petacci (fratello di Claretta) che non poco contribuirà ad aiutarlo, senatore del Regno. La tenuta di via Po è il tempio della sua vita: «Questa villa è quanto di più caro io possegga... oasi di calmo riposo e prezioso cenacolo d’arte». Uno scrigno neoclassico stipato di arazzi e dipinti e circondato di piante rare (Moravia contemplandole da una villetta non lontana in via Donizetti concepirà i suoi «Indifferenti»). Ma è anche un tempio del dolore. Villa Giorgina è dedicata a Giorgina Levi, l’amatissima figlia, morta diciottenne a Parigi forse di leucemia, dopo mille consulti e inutili cure. E un dolore sottile attraversa queste stanze magnifiche, come attraversa la nostra storia.
Lontano da chiÈ il dolore vergognoso delle leggi razziali, contro il quale Isaia si batte come sa. «Sapeva districarsi molto bene», dice Orietta De Filippis, che sulla villa ha scritto un bel saggio. Districandosi, e pagando, Isaia riesce a ottenere la «arianizzazione» nel 1940 (Marcello Petacci è già da tempo ospite di Villa Giorgina e non è certo estraneo alla pratica). Salva le ditte (la Aurora e la Zanichelli su tutte), protegge un patrimonio che dopo la guerra varrà quattro miliardi, ma si allontana da ciò che è. Non avrà più rapporti con i suoi fratelli. Quando i nazisti occupano Roma, non c’è però trucco burocratico che tenga. Lui si rifugia in Vaticano con Nella, alla quale attribuirà poi l’ultimo passo, «l’ausilio e l’appoggio datomi nel dispormi ad abbracciare la religione cattolica». Andreotti ricorderà come nel ‘43 fosse aperta una mensa solidale sostenuta dalla Santa Sede nei vasti sotterranei del palazzo. Il lascito testamentario della villa a Pio XII, con l’esplicita richiesta di farne Nunziatura, assieme alla donazione del patrimonio in opere di beneficienza, sarà l’esito finale d’una vita burrascosa, perché «un uomo si conosce veramente alla fine», ammoniscono le Sacre Scritture. E noi, dunque, alla fine proviamo a specchiarci in Isaia e nel suo tempio privato. A cercare qui, negli eroismi e nelle paure, nei cedimenti e nei riscatti d’un italiano d’allora, la nostra storia d’italiani d’oggi. Sino ai misteri della cronaca che, fuori dalle mura poderose della villa, ancora si mescolano maleolenti al traffico di via Po.