La Lettura, 13 gennaio 2019
«Matematici, usciamo dalla bolla»
«Trascendere i propri limiti e dominare l’universo» è il motto impresso sulla Medaglia Fields, attorno al volto di Archimede. Si schermisce Alessio Figalli, 34 anni, il matematico italiano che lo scorso agosto ha vinto il premio più prestigioso, considerato pari al Nobel, nella sua disciplina. Domani, lunedì 14, rientra a Pisa, dove si è formato – alla Scuola Normale Superiore e all’Università —, per partecipare a un convegno internazionale dedicato a lui e ai suoi studi. In questa occasione parla a «la Lettura» delle attuali ricerche, ma anche degli scenari che dovrà affrontare la nuova generazione dei matematici. «Trascendere i limiti» tra i diversi campi del sapere, ma anche tra gli scienziati e la società tutta, ammette, «diventerà, in un mondo complesso, sempre più necessario».
Figalli si è distinto, come recitano le motivazioni del premio, «per i suoi contributi al trasporto ottimale, alla teoria delle equazioni derivate parziali e alla probabilità». Il trasporto ottimale, chiarisce provando a semplificare, «è il modo migliore di spostare risorse da un luogo a un altro. Il problema nacque già in epoca napoleonica in ambito militare, quando il matematico Gaspard Monge si chiese come trasportare, nel modo meno dispendioso possibile, i materiali per costruire le fortificazioni, dalle miniere al luogo in cui venivano eretti gli avamposti». Il trasporto ottimale obbedisce a una formula matematica, tecnicamente un’equazione differenziale alle derivate parziali, ed è uno strumento che permette anche di studiare fenomeni naturali all’origine molto diversi.
Accade per esempio con le bolle di sapone. «Quando soffiamo per crearle – spiega Figalli – le particelle d’aria all’interno della bolla si aggiustano per arrivare a una configurazione il più stabile possibile. Da qui nasce la forma sferica. Questo vale in astratto, ma nella realtà agiscono anche forze che influenzano lo scenario, ad esempio se c’è vento che soffia dall’esterno contro la superficie della bolla. Per capire quanto cambia la forma di quest’ultima nella nuova situazione, con i colleghi Francesco Maggi e Aldo Pratelli abbiamo usato il trasporto ottimale: in questo modo abbiamo capito esattamente come ciascuna particella d’aria si è mossa». Lo stesso studio si applica anche ai cristalli e permette di capire come cambia la loro forma se, ad esempio, vengono riscaldati.
Non solo. Con un altro collega, Guido De Philippis, Figalli ha studiato l’equazione del trasporto ottimale anche per dedurne nuove proprietà in relazione al movimento delle nuvole. Il prossimo fronte, invece, sul quale ha già iniziato a lavorare, annuncia, sono le «transizioni di fase», in particolare come il ghiaccio si scioglie dentro l’acqua.
Lei si definisce matematico puro. Ma le sue teorie affondano nella realtà. Potranno avere ricadute pratiche?
«I processi sono astratti, ma regolano fenomeni concreti. I calcoli legati al movimento delle nuvole, ad esempio, potrebbero aiutare a migliorare l’affidabilità delle previsioni meteo. Ma anche a prevedere fenomeni più pericolosi, come lo scioglimento dei ghiacci o gli uragani, questioni urgenti in relazione al cambiamento climatico. Anche se, va chiarito, tra un teorema matematico e la sua applicazione nella realtà, passa comunque moltissimo tempo. È importante però che la conoscenza non si fermi, fare sempre un passo avanti che potrà essere raccolto e messo a frutto da qualcun altro. Anche in ambiti al di fuori della matematica, come la biologia e la medicina».
In che modo la disciplina dei numeri interagisce con questi settori?
«Ci sono formule della matematica, sempre appartenenti alla famiglia delle equazioni alle derivate parziali, ad esempio, che modellizzano la crescita dei tumori. Si è visto che se un tumore non raggiunge una certa massa critica, regredisce. Se invece tocca una certa soglia, cresce sempre più. Questa collaborazione con la biologia è una tendenza dell’ultimo quindicennio, che oggi si sta rafforzando».
Perché accade proprio adesso?
«Nell’Ottocento non esisteva il concetto di matematico o fisico come lo intendiamo ora. Poteva addirittura capitare che ci si occupasse di numeri e formule, ma che di professione si facesse l’avvocato. Il Novecento è stato il momento della specializzazione, anche all’interno della stessa disciplina. Poi, via via, il progredire della conoscenza ha spinto naturalmente all’intersezione, a creare connessioni sempre più numerose tra i vari campi. Si pensi al cuore che pompa il sangue nelle vene: anche quella è una forma di trasporto ottimale. La società stessa in cui viviamo, inoltre, è diventata più complessa, fa richieste più stratificate. Basti considerare l’introduzione dell’intelligenza artificiale. La domanda d’interdisciplinarità dunque sale, lo si nota anche nei criteri con cui vengono erogati i finanziamenti».
Qual è il modello di sapere che può rispondere a queste esigenze?
«L’interdisciplinarità del singolo è una soluzione, ma non sempre è facile, perché bisogna comunque mantenere la profondità, la competenza, lo scavo, consentiti dall’essere molto specializzati. Il segreto è allora mettere insieme le specializzazioni, lavorare in team multidisciplinari».
Lei ha menzionato l’intelligenza artificiale. Quale ruolo ha la matematica nello sviluppo tecnologico della nostra epoca?
«L’intelligenza artificiale è un problema matematico. Prendiamo il caso dell’algoritmo con cui s’insegna al computer a riconoscere il soggetto di un’immagine. Una mucca, ad esempio. All’intelligenza artificiale vengono somministrate centinaia di migliaia di foto di mucche, ma se alla fine gliene mostro una in spiaggia, anziché nel consueto pascolo di montagna, non la riconosce. Risolvere questo tipo di problemi non è semplice ed è, appunto, una questione matematica. L’immagine è fatta di pixel, oggetti astratti che il computer sovrappone, fino a crearsi una sorta di mucca standard. Poi, ogni volta che l’intelligenza artificiale guarda una nuova immagine, deve colmare la distanza tra la mucca-modello e questa nuova sollecitazione. In un certo senso “trasportare i pixel”, come fossero particelle. Tanto che il trasporto ottimale può essere uno strumento anche per questo tipo di questioni».
La capacità di calcolo dei robot sarà infinita? Rischierete di essere soppiantati anche voi matematici?
«Spero di no, e di non essere smentito dalla storia. Anche i computer programmati al meglio potranno arrivare solo a un certo livello di astrazione, non a quello umano. L’intelligenza artificiale non possiede la creatività. Apprende accumulando casi, non ha la capacità di astrarne infiniti come sa fare il nostro cervello».
La tecnologia sta rivelando anche un lato oscuro. I vostri studi potrebbero essere usati in modi perversi, ad esempio violando la privacy o a scopi propagandistici.
«È vero, ma non si può fermare la conoscenza. Il riconoscimento delle immagini, ad esempio, può essere usato per migliorare la sicurezza, oppure per fare diagnosi mediche più accurate e sicure».
Servirebbe una regolamentazione? Lo scorso 18 dicembre la Commissione europea ha diffuso una prima bozza di una serie di linee guida etiche in materia di robotica.
«Le norme sono necessarie, purché non si pongano troppi limiti alla ricerca. Per questo sono utili commissioni, comitati nazionali o internazionali in cui siedano esperti di diverse discipline. Scienziati accanto a filosofi, storici e giuristi. Ciascuno di noi dovrebbe essere umile, non pensare di capire tutto, ma provare a collaborare in gruppi misti. Alla Normale, ad esempio, gli studenti delle discipline scientifiche convivono con quelli delle materie umanistiche. Ci si contamina: è un modello utile in vista delle sfide che stiamo affrontando».
Come fare concretamente affinché specialisti di varie discipline collaborino a disegnare il futuro?
«La politica ha un ruolo importante nella gestione del processo, nell’immaginare il modello di società in cui vorremmo vivere e nel coinvolgere gli esperti dei vari settori. Emmanuel Macron, ad esempio, ha chiamato Cédric Villani, Medaglia Fields 2010, a stilare un rapporto sull’intelligenza artificiale. E Vladimir Putin ha scelto Stanislav Smirnov, un’altra Medaglia Fields, sempre nel 2010, come consulente per riformare l’insegnamento della matematica nella scuola e nell’università».
Lei suggerisce di coinvolgere gli scienziati. Eppure viviamo una fase storica in cui, ad esempio, i vaccini vengono messi in discussione. Perché accade? La comunità scientifica ha essa stessa delle responsabilità?
«Non voglio negare che ci siano stati errori. Ma se una casa farmaceutica sbaglia per risparmiare, non va messa in discussione la scienza. Quest’ultima sta facendo conquiste enormi eppure si arriva a dubitarne. È come se ci fosse uno scollamento tra gli studiosi e la gente comune. Di sicuro c’è almeno un problema di comunicazione. Da una parte, se ci sono continui tagli alla ricerca, non si protegge chi lavora bene, non lo si invoglia alla partecipazione. D’altro canto è importante che noi studiosi usciamo comunque dal guscio, che facciamo capire chi siamo, cosa facciamo. Serve mostrare il nostro volto alla società, metterci di più in gioco, così da far capire che la matematica e, in generale, la scienza servono».
Non si definisce un cervello in fuga. A differenza di altri, per lei le offerte in Italia non sono mancate e ha potuto scegliere di lavorare all’estero. Il nostro Paese sta perdendo capacità di attrazione?
«La ricerca italiana nella matematica è di altissimo livello. Mi sono formato con Luigi Ambrosio, a sua volta allievo di Ennio De Giorgi. Appartengo a una scuola dalla forte impronta italiana. Al netto di questo, penso sia giusto muoversi all’estero per ampliare la propria conoscenza, confrontarsi con altri metodi. Il problema, però, è che per gli italiani che vogliono rientrare dovrebbe essere più facile farlo. Lasciando per un attimo fuori il discorso delle risorse che non vengono investite nella ricerca, già fare domanda per l’Italia è complicato. Negli altri Paesi i bandi con le posizioni aperte escono ogni anno nello stesso periodo e con procedure centralizzate. Da noi ognuno va per conto suo, i bandi non sono pubblicizzati in modo chiaro e spesso non sono tradotti in inglese».
Il XX secolo iniziò con una conferenza a Parigi in cui il matematico David Hilbert fece una lista dei problemi aperti più rilevanti. Quali sono quelli del XXI?
«Definire le sfide principali della matematica non è possibile. Ogni settore, ogni scuola, ha i suoi obiettivi. Esistono però due problemi storici ancora irrisolti. La dimostrazione della congettura di Riemann: un’ipotesi per sapere, in modo abbastanza preciso, quanti sono i numeri primi in intervalli di numeri interi molto grandi. E poi la soluzione analitica delle equazioni di Navier-Stokes, che riguardano il comportamento dei fluidi, ad esempio il movimento dell’acqua in un tubo. Nel primo caso, le ricadute potrebbero riguardare un ambito come la crittografia; nel secondo, l’acqua degli oceani, il sangue delle vene, l’idraulica in generale. Ma per entrambi i problemi vale il principio che, se riuscissimo a risolverli, vorrebbe dire essere andati così avanti, aver raggiunto un tale grado della conoscenza che si risolverebbero, a catena, molti altri quesiti della matematica».