La Lettura, 13 gennaio 2019
L’accento su «sé stesso» ci vuole eccome
Se stessi qui a fare polemica, dovrei semplicemente invitare tutti a fare pace con sé stessi, o con sé stesse: perché quell’accento non ci sarebbe, se stesse lì per caso. C’è perché serve a distinguere il pronome personale (sé) dalla congiunzione ipotetica (se). E, come appare evidente già da queste prime righe, non è affatto vero che quando sé precede stesso o medesimo di quell’accento non ci sia bisogno. Ma appunto, l’intenzione non è qui quella di far polemica, quanto di capire insieme perché è bene mettere sempre l’accento su quel sé.
Accidenti agli accenti!«Nel numero di domenica scorsa per due volte è scritto “sé stesso”. Per favore, non dimenticate anche voi l’ortografia!». È solo uno dei tanti messaggi che quasi ogni settimana arrivano alla nostra redazione. L’ortografia è sentita oggi come l’aspetto più stabile e inamovibile della norma linguistica. Quello su cui ha più insistito la scuola postunitaria, compensando l’impossibilità di normalizzare la pronuncia troppo segnata dalla provenienza regionale. Ma non bisogna dimenticare che l’ortografia, ancor più di altri aspetti della grammatica, è il risultato di un processo storico legato al diffondersi di alcune convenzioni. Nella storia dell’italiano, di accenti e apostrofi non s’è quasi sentito il bisogno fino all’invenzione della stampa. Il primo uso di questi segni con una funzione simile a quella moderna si ha, all’inizio del Cinquecento, nell’edizione delle poesie di Petrarca curata a Venezia dal grande umanista Pietro Bembo: il padre della grammatica italiana. Non tutti, peraltro, accolsero con favore quella novità. Ancora a fine secolo, un filologo di tutto rispetto come Jacopo Corbinelli se la prendeva con chi osava pubblicare le opere dei classici «incaccate e d accenti e d apostrofi e imbratti simili».
Su qui (quo) e qua l’accento non ci va Nel Seicento, l’originale grammatica di Daniello Bartoli intitolata Il torto e ’l diritto del non si può ironizzava su quelli che «accentano quasi ogni parola ch’è d’una sillaba sola terminata in vocale», col risultato che «le loro scritture paiono uno stormo d’allodole o d’upupe, col pennacchio e la cresta in capo». Ma condivideva l’atteggiamento di chi si serviva degli accenti «ad effetto di distinguere le parole di doppio significato» come «PIE e PIÈ, SE e SÈ». (L’unico accento sulle vocali finali è stato per secoli quello grave: perchè, dunque, si scriveva come caffè; solo ai primi del Novecento si è diffusa la distinzione tra accento grave per le vocali aperte: però, cioè, e acuto per le chiuse: perché; a lungo ha continuato a oscillare l’uso per le altre vocali).
La questione dell’accento sui monosillabi è rimasta in discussione per vari secoli. Anche i bambini oggi sanno – o dovrebbero sapere – che «su qui e qua l’accento non ci va» (qualcuno, pensando ai tre nipotini di Paperino, aggiunge anche quo). Nell’Ottocento, però, si era molto più elastici. A testimoniarlo ci sono soprattutto le lettere delle persone cólte: scrittori come Pietro Giordani («qui trovo ogni bene desiderabile»), nobildonne come Laura Maffei di Canossa («dal principio della rivoluzione in quà»), scienziati come Antonio Scarpa («Se fossi in Milano forse mi comprometterei di trarre la castagna; ma stando quì non mi è possibile»), politici come Agostino Depretis («le scrivo quì alla Camera»).
L’accento della porta accanto Se si va in cerca di modelli del passato, insomma, tutto dipende dalla porta a cui si bussa. Manzoni scrive «sè stesso», anche nei Promessi sposi (prima di incontrare l’Innominato, ad esempio, Don Abbondio «dovette dunque parlar con sè stesso»); Leopardi preferisce la grafia senza accento, anche in poesia (e anche nei titoli: A se stesso). Già nelle grammatiche di fine Ottocento, d’altronde, si osserva che il «Sé pronome suole segnarsi d’accento per distinguerlo da se congiunzione», ma «seguito da stesso, medesimo, scrivesi per lo più senza accento». L’uso, evidentemente, si stava diffondendo: ma non era – e non è – una regola.
Sono molti, anzi, i grammatici che per tutto il Novecento quell’uso lo riprovano e censurano, considerando «assurdo andar poi a ricercare quando» quel sé «sia più o quando meno riconoscibile per dare la stura alle sottoregole e alle sottoeccezioni» (Camilli, Pronuncia e grafia dell’italiano) o a «cervellotiche motivazioni da perdigiorno e azzeccagarbugli» (Canepari, Manuale di pronuncia italiana). Perché, seguendo la logica di questa «regoletta inutile e fastidiosa» (Serianni, Prima lezione di grammatica), dovremmo togliere l’accento anche in formule come «a sé stante» o «di per sé». E anche in molti casi che riguardano altri monosillabi: come «fatti in là», in cui non c’è alcun rischio di confusione con l’articolo, o «dimmi di sì», in cui nessuno scambierebbe l’avverbio affermativo per il pronome riflessivo.
E sottolineo se Ora è giunto il momento di spezzare l’incantesimo per cui – notava Aldo Gabrielli – se non ci si piega a questa «regoletta fasulla», si rischia di «essere espulsi dall’umano consesso in quanto reprobi ignoranti». Anche perché, nel frattempo, il sé stesso ha fatto molta strada. Le grafie senza accento, «frequenti ma non giustificate» (Dizionario di ortografia e pronuncia) hanno dalla loro, più che altro, l’inerzia determinata dall’insegnamento scolastico. In cui si continuano a tramandare, talvolta, altre presunte regole senza fondamento: come il divieto di cominciare un periodo con una congiunzione o un gerundio, o di far precedere la e e la o da una virgola, o di usare l’apostrofo a fine rigo.
Un tempo c’era la matita rossa e blu, che graduava gli errori (non solo quelli di lingua) a seconda della gravità. Oggi c’è la sottile linea rossa, o blu: quella del correttore automatico che segnala a video gli errori di ortografia o di grammatica. Questo cyber-maestro ha dalla sua il fatto di assistere alla composizione di tutti i nostri testi digitati (nel segreto del tuo digitare, la prof non ti vede: il correttore automatico sì). Non sarà senza conseguenze, allora, il fatto che – durante la scrittura di questo articolo – il correttore automatico continui a sottolineare in blu il se di se stesso, consigliandomi di mettere l’accento. Quello del telefono, poi – già durante la digitazione —, aggiunge d’ufficio l’accento. Qualcuno, finalmente, ha corretto i correttori: ognuno, adesso, può serenamente accettare sé stesso.