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 2019  gennaio 12 Sabato calendario

Le parole che non usiamo più

L’italiano si rinnova, il che è un bene perché è segno di vitalità, di una lingua elastica e curiosa, e nemmeno ha molto senso scandalizzarsi per le importazioni di parole dall’inglese, perché questo tipo di prestiti o assimilazioni sono sempre avvenuti nella nostra lingua. Tuttavia il rinnovarsi della lingua porta anche alla perdita di vocaboli, divenuti per l’appunto desueti, che avevano una pregnanza o anche semplicemente una bellezza sonora insostituibili, e che sarebbe bene riesumare. Ad esempio, «corrusco», aggettivo che vuol dire scintillante, lampeggiante, che etimologicamente nasce per descrivere le scintille sprigionate dal cozzare dell’acciaio delle armi di due guerrieri. Così in una giornata di sole splendente potremmo dire a un amico: «Non c’erano nuvole nel cielo corrusco». Ci prenderà per pazzi, ma forse s’incuriosirà per quella parola così rara. Alessandro Manzoni, che non aveva fisime puristiche e amava molto il linguaggio popolare, preferiva dire «girandolare» a «gironzolare», e non possiamo che concordare: in certi casi si girandola più che si gironzola, specie quando quel vagare sempre corrisponde a un ritornare allo stesso punto, vanamente, proprio come l’immobile roteare della girandola. Ancora nel campo delle voci vicine al parlato, un tempo c’era «scombuiare», vocabolo potente fin nella pronuncia, che vuol dire mettere in disordine, frastornare, e si può dire sia di oggetti che di cose animate, come fa Pirandello, quando di un personaggio descrive magistralmente «la mente scombuiata», dove l’assonanza della parola con «buio» rende ancora più eloquente l’opacizzazione di quel cervello. 

REBOANTE E TRISTO
Non del tutto sparito della circolazione ma a rischio estinzione c’è anche il bel «trasecolare», verbo che vuol dire uscire di sé per lo stupore o la meraviglia, ma che ha un respiro ancora più vasto, perché in questa parola si annida il «secolo» cioè l’epoca in cui si vive, in cui si è venuti al mondo, e quindi trasecolare è come essere sbalzati in un altro tempo e luogo, anzi, in un’altra esistenza. C’è poi una parola ancora abbastanza usata, ma di cui si è smarrita la variante più bella e più corretta, cioè «reboante», che vuol dire lo stesso che «roboante» ma, appunto, è più elegante e più fedele all’etimo, il verbo latino «reboare» che vuol dire rimbombante, risonante. Restando sempre alla erre, è molto bello quanto disusato l’aggettivo «rugiadoso», che non vuol dire solo «coperto di rugiada», che è il significato letterale, ma in senso più lato indica qualcosa di brillante e di fresco insieme, oppure, in senso spregiativo, qualcosa di lacrimevole e di ingenuamente sentimentale. Decisamente all’opposto c’è «tonitruante», che è sinonimo di «tuonare», ma se diciamo «tonitruante» indubbiamente lo scoppio del tuono è ancora più forte, e allora perché non rimetterlo in circolazione, magari con un’accezione ironica, per certe dichiarazioni «tonitruanti» di personaggi pubblici? Poetico, anche se poco attestato anche in passato, è «sagittabondo», aggettivo che, sullo schema di altri simili come «meditabondo» «cogitabondo indica qualcuno profondamente assorto in un’attività, in questo caso, quella di lanciare dardi (dal latino sagitta, saetta); ma che tipo di dardi? Dardi di Cupido, che fanno innamorare, quindi il «sagittabondo» è, in definitiva, un uomo o una donna dallo sguardo ammaliante. Il contrario di un personaggio «tristo» che, attenzione, non vuol dire «triste» (anche se è uno dei significati) ma perlopiù malvagio, perverso, con una sfumatura di deformità e bruttezza esteriori che sono il segno della cattiveria.

SERTI E ROMITO
Da recuperare anche «frusto», che vuol dire consumato, logoro e, come si intuisce, deriva dall’idea che un oggetto sia stato addirittura «frustato» fino ad assumere un aspetto miserevole. Per risollevarci d’animo dopo i tristi e i frusti, parliamo dei «serti», che sono le ghirlande – generalmente di alloro – con cui si incoronavano i vincitori nei combattimenti o nelle gare poetiche, e infatti è parola molto amata dai versificatori. Un’altra parola prediletta dai poeti è «romito», che è sia sostantivo che aggettivo, e vuol dire solitario, ma avvicinandosi a «eremita» è ancora più intenso e, mentre il solitario a volte è tale suo malgrado, in genere nell’individuo romito o nel luogo romito c’è un sentimento di consolazione. Alcune parole poi sono molto buffe, come «caposcarico», che nessuno usa più, ma che un tempo rivaleggiava con gli equivalenti «buontempone» o «mattacchione». Oppure l’aggraziato «buonamano», che vuol dire mancia ma ha qualcosa di più leggiadro. Terminiamo la nostra esibizione di belle parole dimenticate con un vocabolo difficile fin dall’accentazione: «aprìco», anch’esso di frequente uso poetico, che sarà pure ricercato però è insostituibile perché in una parola concentra due significati, quello di «all’aperto» e di «esposto al sole». E quindi aprìco sarà il versante di un colle, un paese, una casa, o anche, perché no, un volto, un sorriso.