Tuttolibri, 12 gennaio 2019
Riscoprire Asimov
Alla fine di Visioni di robot, il racconto che dà il titolo alla raccolta di Isaac Asimov appena ripubblicata dal Saggiatore, l’anonimo narratore che, per una quindicina rocambolesca di pagine, ha intrattenuto il lettore con una storia di viaggi nel tempo e androidi svela finalmente le proprie carte: «Sono un robot anch’io, sapete. Sono il primo robot umanoide, ed è da me, e da quelli come me che non sono ancora stati costruiti, che dipende il futuro dell’umanità». È un punto inusuale da cui partire per descrivere la carriera cinquantennale di Asimov – uno dei «grandi tre» della fantascienza anglosassone, insieme a Robert A. Heinlein (oggi davvero poco letto, fatta eccezione per
La luna è una severa maestra) e Arthur C. Clarke –, ma, nella sua fulminante pianezza, questa chiusa si presta bene a una ricognizione, per quanto necessariamente veloce, dell’universo immaginifico di questo autore, che fu anche scienziato e professore di biochimica.
Innanzitutto perché mette in luce la giocosità narrativa di cui Asimov fu sempre maestro, e che qui si estrinseca nel finale a sorpresa; un finale «da giallo» che ricorda L’assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie o la conclusione delle Cronache marziane del grande genio della fantascienza statunitense, Ray Bradbury: il vecchio incantatore – qui a una delle sue ultime prove dedicate ai robot – ci sorprende ancora una volta, e nello svelarci in extremis che il protagonista del racconto è egli stesso un robot ci fa battere un colpo in fronte: «Ma certo, come abbiamo fatto a non capirlo!», e chiudere il libro con un senso insieme di bonaria sorpresa e di rasserenata pacificazione. È una costante in Asimov. Per quanto seri i temi affrontati – soprattutto nei romanzi della Fondazione – e per quanto seri i rovelli morali affrontati dai suoi personaggi, i racconti e i romanzi di Asimov mantengono un tono lieve e allegro, talvolta apertamente faceto, che li allontana dal martellante militarismo di Heinlein o dalla grandiose visioni clarkiane, per non parlare del misticismo pessimista di quello che dovrebbe essere a tutti gli effetti considerato il «quarto grande»: Philip K. Dick. Né questo sotterraneo senso dell’umorismo – «segno distintivo dell’umanità, molto più di qualsiasi altra caratteristica» dice Asimov – dovrebbe sorprendere, se consideriamo che la sua produzione conta anche un riuscitissimo «whodunit» ambientato nel meno misterioso dei setting possibili – una fiera del libro! – e, a dimostrazione che il giallo rimase una costante per tutta la sua carriera, una lunga serie di racconti che ha per protagonisti un gruppo di vecchietti amanti della detection: per i Vedovi neri, nessun problema è mai troppo grave, davanti a un bicchiere di brandy.
C’è qualcosa della petulanza di questi azzimati signori anche nei genitori della piccola Gloria, che in «Robbie» – il racconto forse meglio riuscito di Visioni di robot – rispediscono in fabbrica il robot-balia della figlia, salvo poi convincersi a riportarlo a casa dopo che Robbie salverà la vita alla bambina. Tutto è bene quel che finisce bene, verrebbe da dire, e in effetti la maggior parte delle opere di Isaac Asimov sono improntante a un ottimismo razionalista che, della giocosità narrativa di cui sopra, è il naturale controcanto: soltanto quando l’ordine del mondo è salvaguardato a priori, ci si può concedere un sorriso rilassato, e lo scrittore può permettersi di concludere la sua storia con un coup de théâtre degno di un prestidigitatore.
Ed è proprio questo ottimismo il secondo carattere distintivo dell’opera asimoviana che la chiusa di Visioni di robot ci aiuta a mettere a fuoco. In Cronache robotiche, apposto a mo’ di breve introduzione alla raccolta, Asimov confessa: «Negli anni trenta ero un accanito lettore di fantascienza, così ebbi modo di stancarmi delle trame trite che vedevano i robot recitare il ruolo dei cattivi. Io non li consideravo pericolosi. Per me erano […] macchine tecnologicamente avanzate, ma […] si poteva dotarle di congegni di sicurezza». Nascono da qui, da questi «congegni di sicurezza», le famose tre leggi della robotica – parola peraltro inventata dall’autore stesso, come segnala l’Oxford English Dictionary, a dimostrazione del potere profetico che, a volte, la letteratura sa ancora avere –, che costituiscono senz’altro il contributo più significativo di Asimov al canone fantascientifico. I suoi robot sono, nelle sue parole, «macchine progettate da ingegneri», raffinati congegni di metallo e cavi e transistor che non assomigliano all’uomo se non per la più vaga delle anatomie; macchine che «sollevano problemi di ingegneria» che i protagonisti umani delle storie, molto spesso scienziati, devono risolvere. Sono storie, insomma, che – leggiamo sempre nell’introduzione – vogliono essere «ritratti piuttosto convincenti di un futuro tecnologico, e non [hanno] la pretesa di essere lezioni morali». I robot di Asimov, ci tiene a precisare l’autore, sono macchine, non metafore.
E forse è per questo che, oggi, le storie di Asimov, per quanto ampiamente pubblicate e disponibili in tutto il mondo, e senza dubbio ancora lette e amate, sembrano reperti narrativi di un’epoca lontana, a cui guardare con ambrata malinconia, ma senza troppo ingaggio intellettuale. D’altronde, ad aver fatto scuola, in letteratura e al cinema, non sono tanto i suoi robot – più simili all’uomo di latta del Mago di Oz –, quanto i replicanti dolorosamente teologici di Dick, di cui vediamo incarnazioni moderne in, per citare solo due esempi, Westworld e, con tutt’altri e molto più alti esiti, Battlestar Galactica. I robot di oggi hanno le nostre fattezze perché dobbiamo sospettarli umani, e perché, di conseguenza, ci devono spingere a sospettare che gli umani nostri simili siano altro: solo così la perpetua caccia alla streghe in cui siamo quotidianamente impegnati può continuare.
Eppure, forse, tornare a leggere Asimov ci farebbe bene: come balsamo, ma anche, e soprattutto, per una lezione di lungimiranza visionaria. Da qualche parte, nelle sue storie, il vecchio gigante gentile della fantascienza ha nascosto la soluzione al nostro futuro.