La Stampa, 12 gennaio 2019
Intervista a Vittorio Storaro
«Noi siamo quelli che si prendono cura del corpo del film», dice Vittorio Storaro citando Bernardo Bertolucci. Guai a dargli del direttore della fotografia. Lui è un «cinematografo», lavora sulla fotografia cinematografica, quindi su una sequenza di immagini e non su una sola. Ha vinto tre Oscar nella sua carriera e ha collaborato con i più grandi. E ancora non si ferma.
Oggi sarà alla prima edizione del Festival degli effetti visivi, alla Casa del Cinema di Roma, per chiarire una volta e per tutte che non c’è conflitto tra effettistica e cinematografia, ma che «bisogna trovare il modo di fare una proposta, alle varie accademie e ai vari reparti, per dare a Cesare quello che è di Cesare. Altrimenti c’è il rischio di appropriarsi di un lavoro che appartiene ad altri».
Oltre al termine fotografia, lei non ama nemmeno quello di direttore.
«La struttura di un film è esattamente come quella di un’orchestra. Ci sono i singoli musicisti, e poi c’è il direttore. E come si può pensare che nella stessa orchestra ci siano due direttori? Abbiamo bisogno di un unico conduttore, di una sola persona che trova la decisione finale».
Conta di più il talento o la preparazione?
«Non c’è una cosa più importante dell’altra. La preparazione è fondamentale. Perché dalla lettura della sceneggiatura e dal primo colloquio del regista si capisce quello che è il contenuto centrale del film. Poi sta a noi cinematografi ideare un concetto figurativo che lo sottolinei».
Il conformistaè stato un punto di svolta nella sua carriera.
«Il che è strano, visto che sia io che Bernardo abbiamo fatto quel film con molta tranquillità. Tutto quello che volevamo fare era dare il massimo. Quando l’abbiamo finito ci ha scioccato la reazione degli altri. Il conformista non ha cambiato noi, ma la visione che gli altri avevano di noi».
Ricorda quando incontrò Bernardo Bertolucci per la prima volta?
«Dopo aver lavorato con Marco Scarpelli, mi fermai. Decisi di tornare a studiare: gli anni del Centro Sperimentale non bastavano, ero troppo giovane. Fu Camillo Balzoni a convincermi che non potevo aspettare Scarpelli, che era importante che tornassi a incontrare le persone. Mi disse di andare con lui, e di ripartire da capo».
E Bertolucci?
«Sono andato a Parma, come mi aveva detto Balzoni, e lì ho conosciuto Bernardo. Sono rimasto sconvolto dal modo in cui scriveva il film con la macchina da presa. Non girava finché non intuiva il giusto movimento e il giusto spazio. E io mi meravigliavo. Perché non c’era la ricerca di un’immagine particolare, cosa a cui ero abituato. Ma doveva esserci una visione poetica rispetto alla storia».
La cambiò quell’incontro?
«Quando ho ricominciato a lavorare con Scarpelli, sono stato molto più cosciente. Ho rifiutato le offerte che mi venivano fatte. E ho accettato solo quando mi sono sentito pronto: con Franco Rossi, in Giovinezza, giovinezza, uno dei film più belli della mia vita. Quando ho finito, mi ha chiamato Bertolucci. La prima cosa che mi ha chiesto è stata: “Vittorio, ti ricordi di me?”. È cominciato tutto così».
C’è un film a cui tiene di più?
«Non si può estrarre una pagina da un libro, o un titolo da una serie di film. Perché sono pezzi di vita. Ognuno di questi progetti è la tessera di un mosaico più grande».
In questo mosaico c’è ancheApocalypse Nowdi Francis Ford Coppola.
«La prima volta che me lo propose rifiutai. Non capivo cosa c’entravo io con un film di guerra. Coppola, però, fu chiaro: “Vittorio, questo non è un film di guerra; questo è un film sulle civilizzazioni; io voglio mostrare quello che succede quando una cultura si sovrappone a un’altra cultura, l’atto di violenza che commette”. Fu allora che capii il senso del film. Trovai la mia visione sovrapponendo la luce artificiale alla luce naturale, creando un conflitto visivo».
Leggenda vuole che sia stato lei a sciogliere un nodo cruciale con Marlon Brando.
«Quando arrivò Brando, ci fermammo per tre giorni perché si sentiva a disagio a mettere in scena un personaggio che veniva dal nulla. Poi, il terzo giorno lavorai su un’inquadratura che lo avrebbe mostrato gradualmente. Coppola non riusciva a trovare le parole per convincerlo a girare. Gli feci vedere quello che avevo preparato, e lui mi disse di ripeterlo a Brando. E lui si convinse. Un genio».
Qual è il film più difficile su cui lavorare?
«Nessuno, se si ha un’idea. La vera difficoltà sta nell’iniziare un progetto senza sapere la direzione da prendere, senza sapere dove andare. Se ho un’idea chiara, tutto diventa lineare; tutto è possibile».