la Repubblica, 12 gennaio 2019
Sull’addio di Andy Murray
Mi si chiede un ritrattino di Andy Murray, a me che appena viene in mente che ha vinto Wimbledon (nel 2013 e 2016), e mi ricordo della volta in cui stava in posa, beato, davanti alla statua di Fred Perry. Perry, il britannico che l’aveva preceduto nell’impresa, ben tre volte a Wimbledon. Fianco a me, era il mio amico Alan Little, il capo bibliotecario, autore di una decina di libri sul tennis. Ineccepibili, quanto a esattezza cronistica.
«Perché non sorridi Alan?», mi venne da dirgli, scorgendo in lui un’aria lieta sì, ma non proprio simile alla mia, quando Pietrangeli aveva vinto per la prima volta gli Internazionali d’Italia. «Perché» rispose l’amico, «ha votato per gli scozzesi, e non per noi, very english». Nel referendum del 2014, Andy era stato onestamente contemporaneo, e antibrexit. Anche se, dopo quel Sì scarabocchiato a mano, non aveva mai creduto di confermarlo, quando un collega curioso, o in cerca di notorietà, glielo chiedeva in conferenza stampa.
Di Andy ricordo altresì qualcosa di personale, che spiegava il suo modo di giocare, anche quello poco british, com’era stato invece Fred Perry. Fred arrivava vicino a rete, tutte le volte che poteva, al seguito di una battuta non esplosiva quanto il diritto, ma comunque due colpi da erba. Andy aveva sì un ottimo diritto d’attacco, ma un servizio che non si poteva certo chiamare “cannon ball”. Nonostante la regolarità e il piazzamento.
Capii qualcosa in più di simile scozzese britannizzato (forse sarebbe meglio anglizzato) la volta in cui sua mamma Judy mi portò a visitare Wimbledon, e il suo nuovo Centrale col tetto, sul quale un presidente mi aveva assicurato che gli inglesi non avrebbero mai messo piede. «Meglio la pioggia e la tradizione». Judy mi disse di esser stata lei a inviare Andy, ancora ragazzo, a Barcellona. «Perché il tennis non è più quello degli inglesi, né degli americani. Il tennis è diventato spagnolo. E il mio bambino come gli spagnoli giocherà».Infatti.