la Repubblica, 12 gennaio 2019
Il Trebbiano delle suore di clausura
Una donna, con il capo velato, passeggia tra le vigne, osserva i filari, pota i tralci. Il semplice abito color azzurro pastello si confonde con il limpido cielo invernale. Poco distante un’altra, vestito identico, guida un trattore, che rivolta le zolle. Scene di ordinaria manutenzione di questo vigneto dell’alto Lazio. Ma è una vigna fuori dal comune: si trova tra mura di un monastero. E le contadine impegnate nel lavoro agricolo, con altre ancora che si occupano delle fermentazioni e dei travasi e utilizzano il vecchio torchio in cantina, sono in realtà, suore dell’Ordine Cistercense della stretta osservanza. In parole povere, di clausura. Questa scena inconsueta si ripete puntuale ogni anno dal 1963, quando per la prima volta la Madre superiore decise che quel lavoro in vigna era un modo di onorare Dio, e di trarre sostentamento per le 75 consorelle che abitano il convento.
La curiosità che precede l’ingresso al luogo sacro è tanta: si erge silenzioso nella campagna viterbese, poco fuori dal borgo di Vitorchiano e la sua rupe, nella parte più meridionale della Tuscia. Al suo fianco campi, oliveti, filari di vigne e frutteti. Perché questo interesse? Semplice: è raro trovare in giro per l’Italia un monastero che produca vino (mentre la birra viene prodotta in quasi 180 comunità religiose in giro per il mondo). Il monastero di Vitorchiano, dunque, con la sua produzione di Trebbiano, Malvasia e Grechetto appare un po’ come un unicum. A ciò si aggiunga che quello che rende questo luogo ancora più affascinante è la viticoltura che viene praticata: naturale, con pochi interventi in vigna, ridottissimi anche in cantina. Sono le sorelle-vignaiole a far tutto, sotto la guida di suor Adriana. I consigli enologici, invece, sono di Giampiero Bea, viticoltore di Montefalco, in Umbria, presidente del consorzio ViniVeri, uno dei numi tutelari del movimento del vino artigiano. La scelta di produrre vino – racconta suor Adriana, 50 anni, di cui metà passati in convento – «non è poi così particolare. Coltiviamo semplicemente i prodotti che sono figli di questa zona».
Il lavoro agricolo monacale segue il ritmo quotidiano del convento. Vige l’antica regola benedettina dell’Ora et labora: si vive del proprio lavoro artigiano e non di elemosina; alle quattro del mattino la prima preghiera, un’altra due ore e mezza dopo, l’ultima intorno alle otto di sera. È l’orazione a scandire il tempo dell’attività manuale, sia dei campi che dei laboratori dove si producono anche cioccolata e marmellate.
Alla fine degli anni ’50 crescono i primi filari, ne vengono piantati altri con il tempo e per anni viene prodotto vino da tavola. Ma un certo punto i gusti cambiano e lo “sfuso” rimane per lo più in cantina. Decisivo l’incontro con Bea, circa dieci anni fa, che cambia la produzione del monastero sotto il segno della qualità. I nomi latini delle etichette — Coenobium, Ruscum, Benedic — parlano della provenienza religiosa, mentre la descrizione minuziosa della produzione scritta a mano è un dettaglio a cui negli anni ci ha abituato. Il Coenobium Ruscum è sicuramente il loro prodotto di punta: vigne vecchie oltre 40 anni, tino di resina, 15 giorni sulle bucce e un anno in acciaio, nessun ricorso alla chimica. Un’etichetta spontanea e profumata che rientra a pieno titolo nella categoria degli orange wine. Ventimila bottiglie in tutto che raggiungono le regioni d’Italia ma anche gli Stati Uniti, Canada e Giappone.Le suore non escono da quel perimetro in cui hanno deciso di vivere, non partecipano quindi a fiere o degustazioni. Non gradiscono neppure eccessiva pubblicità. Il vino può essere acquistato direttamente al monastero oppure online a meno di 15 euro. Non si punta al profitto, e quello che avanza si distribuisce a chi ha meno. La vite viene vissuta come un simbolo: «È una pianta straordinaria – conclude suor Adriana – sembra morta in inverno, poi torna a vivere in primavera. Osservandola si comprende cos’è la vita». E il lavoro in campagna un insegnamento: «La natura ci avvicina al Signore, curandola capisci che puoi goderne ma non possederla».