Corriere della Sera, 12 gennaio 2019
Intervista al fotografo Maurizio Galimberti
Acluofobia. Sui dizionari la definizione non c’è. Al massimo trovi nictofobia, «paura ossessiva dell’oscurità notturna». Ma chi soffre di acluofobia teme il buio sempre, anche di giorno. Nella metro, al cinema, in cantina. La patologia psicologica ha portato bene a Maurizio Galimberti, fotografo delle star impossibilitato a rimanere nella camera oscura a causa degli attacchi di panico che le tenebre gli procurano, nonostante sia un pezzo di marcantonio alto 1,91 e pesante 110 chili. Tutta colpa, racconta lui, di certe suore arcigne che hanno funestato la sua infanzia. Eppure dovrebbe ringraziarle, perché grazie a loro è diventato un «instant artist», così lo definì Denise Aliprandi, communication manager della Polaroid.
È con questa fotocamera, sublimazione tecnologica dell’hic et nunc oraziano inventata nel 1948 dallo statunitense Edwin Herbert Land, che Galimberti ha conquistato la fama internazionale, anche se ora è passato alla concorrenza, diventando ambasciatore della nipponica Fuji. Lo svago dei turisti mordi e fuggi nelle sue mani si è trasformato in arte e ha raggiunto quotazioni da capogiro.
Galimberti cominciò 30 anni fa con un ritratto del figlio primogenito Giorgio, che all’epoca frequentava le elementari. Rotto l’incantesimo, uscì di casa e puntò l’obiettivo sui vip: Nicola Trussardi, Carla Fracci, Riccardo Muti, Wim Wenders, Peter Greenaway, Mimmo Rotella, Ettore Sottsass, Inge Feltrinelli. Il verbo non rende l’idea: lui, più che puntare, appoggia. Avvicina i divi con la macchina fotografica istantanea racchiusa nel collector, una specie di scatola, e gliela accosta al viso come se dovesse eseguire una radiografia. Dopodiché scatta. Tre, cinque, dieci volte, con piccoli scostamenti, sino a comporre un mosaico d’immagini da 7 centimetri per 10. Ed ecco il ritratto. Quello di Johnny Depp è finito in copertina su The Times Magazine. Ma fra i trofei Galimberti vanta pure Robert De Niro immortalato con i familiari nella sua casa di New York, Lady Gaga a Las Vegas, Monica Bellucci testimonial di Cartier.
Il suo approccio non li spaventa?
«No, anzi. Bernardo Bertolucci e Carlo Ludovico Bragaglia si divertirono molto. Il maestro del cinema dei telefoni bianchi aveva 100 anni ed era ormai cieco quando Giuliana Scimé gli mise in mano uno dei miei ritratti. La storica della fotografia glielo descriveva, guidandogli le dita sulla superficie. Alla fine il regista esclamò: “Abbiamo un futurista!”».
Mi racconti com’è nato il futurista.
«Fino ai 35 anni ho fatto il geometra nel cantiere edile del mio padre adottivo, che mi lasciò orfano a 20. Ma sentivo il sacro fuoco della fotografia. È brutto dirlo, però quando morì mia nonna ero contento: potevo farmi la camera oscura dove c’era stata la camera ardente».
Avevo capito che il buio la terrorizza.
«Fra i 18 e i 26 anni no. Sviluppavo foto dalle 8 di sera alle 2 di notte. Poi hanno avuto il sopravvento i brutti ricordi».
Quali ricordi?
«D’infanzia. Fino ai 5 anni ho vissuto in istituto. Mia madre, Virginia Bregaglio, era diciassettenne quando mi partorì. Mi abbandonò all’ospedale di Como. Non ho mai conosciuto né lei né l’identità del mio padre biologico».
Non ha fatto ricerche?
«A che pro? Sono un fatalista. Se vieni rifiutato da chi ti genera, che puoi farci? Non ho cercato di ricucire neppure con mia moglie. Siamo separati dal 1995».
Da chi è stato cresciuto?
«Da Eleonora e Giorgio Galimberti, una coppia fantastica di Meda. Li considero i miei veri genitori. La mamma è ancora viva, ha 100 anni. Prima di me avevano adottato Giuseppe. Era stato abbandonato nudo per strada appena nato, avvolto in un quotidiano. Loro lessero la notizia per caso, su un foglio di giornale nel quale il calzolaio aveva incartato le scarpe. Andarono a prenderselo in orfanotrofio. Purtroppo morì a 5 anni per i postumi della meningite che si era buscato nella prima notte all’addiaccio».
E lei dove vennero a prenderla?
«Nel brefotrofio che oggi ospita il liceo scientifico Paolo Giovio di Como. Camerate da sei. Se non rifacevo bene il letto, le suore mi chiudevano mezza giornata in uno stanzino buio. Per le marachelle più gravi scattava la reclusione in cantina. Erano talmente crudeli che io al cinema tifavo per gli indiani, i quali passavano per cattivi pur essendo buoni, anziché per i cowboy. Le ho perdonate solo dopo essere stato adottato».
Questa brutta esperienza che cosa le ha provocato?
«Fobia del buio, ansia, sudori freddi, fame d’aria. In camera oscura avevo sempre paura che ci fosse qualcuno nascosto. Di notte dormo con le tapparelle alzate, deve arrivarmi un riverbero da fuori. Altrimenti accendo la luce in corridoio e tengo la porta aperta. Non posso stare in stanze senza finestre o frequentare ristoranti nei seminterrati».
Ha provato a farsi curare?
«Dagli psichiatri non ci vado. Mi basta vedere il sole».
Con le fotocamere digitali la camera oscura non serve. Perché non usa quelle?
«Nel 1983 non erano ancora state inventate. Mi affascinò il quadratino bianco che usciva dalle Polaroid, mi sembrò che appartenesse più alla memoria che alla contemporaneità».
E così è diventato l’artista dell’istante.
«Nel quartier generale di Minnetonka, nel Minnesota, rimasero stupefatti dalla velocità con cui trasformavo un’idea in un’immagine. Mario Alfano, il vicepresidente della Polaroid stroncato nel 2011 da un tumore al pancreas a soli 52 anni, avrebbe voluto cambiarmi di continuo la macchina perché sospettava che usassi qualche trucco. “I nostri apparecchi non fanno foto così belle”, mi diceva».
Nel 1974 aveva esordito con una fotocamera a obiettivo rotante Widelux.
«Esatto. M’interessava una distorsione che andasse oltre il campo visivo dell’uomo, limitato a 180 gradi, e si avvicinasse quanto più possibile a quello del cavallo, che è di 340 gradi. Raccontare la realtà non mi ha mai appassionato. Preferisco filtrarla dal mio punto di vista, fino a darle un aspetto tridimensionale».
Ha avuto dei maestri?
«Mario Giacomelli, Gianni Berengo Gardin, Franco Fontana e Fulvio Roiter. Ma non per le Polaroid».
E Galimberti da chi si fa ritrarre?
«Da Giovanni Gastel, il nipote di Luchino Visconti, che è un caro amico. O da Douglas Kirkland, il fotografo di Life diventato famoso per gli scatti del 1961 a Marilyn Monroe. O da Tmg».
Chi sarebbe?
«Tommaso Maurizio Galimberti, mio nipote. A 8 anni promette bene. Ha già vinto un concorso fotografico a Monza».
Ha mai provato invidia per i suoi colleghi che imbracciano come fucili Leica, Nikon, Hasselblad, Contax, Canon?
«No, apparteniamo a mondi diversi. Semmai li compiango. La mia Fuji Instax pesa 6 etti, loro girano con kit che arrivano a 10 chili, 5 quando va bene».
Ma le foto istantanee non si stingono?
«Sbiadiscono un po’ alla luce del sole. Fra i 15 e i 24 gradi si conservano perfettamente. Basta metterci davanti un museum glass, vetro anti-ultravioletti».
Che scocciatura, però, aspettare 60 secondi, togliere il foglietto del reagente, scuoterle affinché si asciughino.
«È fermo all’età della pietra. Oggi si lavora con pellicole integrali a 23 strati che si sviluppano da sole, senza far nulla, mediante 5.000 reazioni chimiche».
Mi spiega la tecnica «a grappolo» o «ad ali di farfalla» che usa per i ritratti?
«Sono mosaici in bilico tra il futurismo di Umberto Boccioni e il movimento cinetico-dinamico del Nudo che scende le scale di Marcel Duchamp. Lavoro con lo spirito della “zanzara pungente” caro a Henri Cartier-Bresson. Spiazzo i soggetti attraverso il loro immobilismo. Mi preme cogliere il silenzio interiore più che una semplice espressione».
A proposito di nudo. S’è cimentato anche in quello, se non ricordo male.
«Sì, dal 2012 al 2015, con Arianna Grimoldi, una modella professionista di madre norvegese che usciva da una brutta storia di stalking. Abbiamo girato il mondo. L’ho fotografata in varie situazioni: alberghi, cortili di campagna, piscine, spiagge, teatri. Essendo cresciuto in parrocchia, ero un po’ imbarazzato. Non quanto il cameriere cinese che all’hotel Pierre di New York capitò in stanza durante una seduta di bondage. Vide le corde attorno al seno di Arianna, chiuse gli occhi, posò il vassoio e corse via, andando a sbattere contro il muro».
Che cos’è per lei l’erotismo?
«Venga a prendere il caffè da noi di Alberto Lattuada, con Ugo Tognazzi, un film in cui non v’è traccia di nudità. L’erotismo racconta un desiderio silenzioso e rispettoso. Detesto la volgarità».
Esisterebbe la memoria senza le foto?
«No. La fotografia dona alla memoria l’eternità. È un frammento di carta che procura sensazioni, un riflesso dell’anima. Il cinema non ha questa potenza».
Che cosa pensa dei selfie?
«Mi sembrano frutti agghiaccianti dell’ossessione da telefonino, violazioni di una scienza emozionale e tecnica che dovrebbe conservare sempre la sua sacralità. Per fortuna finiscono nel cestino del cellulare dopo pochi mesi».
C’è qualcuno che vorrebbe ritrarre?
«Sono arrivato a 62 anni prima di fotografare mia madre. Mi sono deciso solo pochi giorni fa, a Natale. Mi pento di non averlo fatto prima. È stato uno choc sentimentale fortissimo. Adesso mancherebbe all’appello solo papa Francesco. Vorrei indagarne la bellezza interiore nelle sue varie sfaccettature. Sono sicuro che sarebbe un ritratto diverso da tutti gli altri. Un bel regalo all’umanità».