il Giornale, 11 gennaio 2019
Toraya, la pasticceria che sforna dolci per l’imperatore del Giappone
La metropoli che nasconde, colpisce ancora. Anche stavolta dove non ti aspetteresti, nel ricco quartiere di Akasaka, mimetizzato tra santuari shintoisti (popolati di kitsune, volpi sacre protettrici dei commercianti), ambasciate e istituti stranieri, ecco il grande padiglione di Toraya, capolavoro dell’architetto Hiroshi Naito. Una cupola di vetro e metallo che già in trasparenza anticipa il trionfo del legno, lasciando immaginare un ambiente confortevole e di eleganza essenziale, in cui la più pura tradizione convive col meglio della modernità. Del resto lo stesso progettista del negozio, completandolo nel 2018 (dopo aver raso al suolo il precedente grattacielo), ha citato il poeta giapponese del diciassettesimo secolo Matsuo Basho: «Conoscere l’immutabile o essere senza radici. Conoscere il sempre mutevole o essere senza modernità». Aggiungendo: «Questa era la sfida che ci era stata proposta: individuare ciò che era importante e non andava cambiato e ciò che, se cambiato, avrebbe parlato alle sensibilità contemporanee».
Insomma, Hiroshi San si è perfettamente calato nei panni del suo illustre committente, Kurokawa Mitsuhiro, diciassettesima generazione di industriali proprietari di un colosso dell’industria dolciaria nipponica che è simbolo e modello di stile e cultura, presente in 80 negozi sparsi per il Giappone, più, dal 1980, uno a Parigi, al numero 10 di rue Saint-Florentin. Fondata a Kyoto intorno al 1500, Toraya, la Tigre, ha attraversato la storia del Giappone per cinque secoli e, se le sue radici affondano nella tradizione come il legno, caldo e rassicurante e il calderone con gli attrezzi dei mastri dolciari, i kanji che illustrano in tavolette e cartigli splendidamente colorati le più raffinate ricette essa è solo un aspetto che disegna l’attuale profilo dell’azienda. Da queste parti venerare il passato non esclude vivere nel presente. Servire l’imperatore non implica una minore cortesia nei confronti del cliente occasionale; essere una rispettata istituzione nazionale richiede come sempre dovrebbe essere un altissimo senso del dovere. Inoltre, esiste un codice di condotta (okitegaki) che la ditta si è autoimposto, obbligatorio, dai vertici al più modesto fra gli impiegati.
Il recupero della sacralità del legno non comporta la rinuncia alla bellezza di un futuro coraggioso da costruire. Nel segno della Tigre di Toraya. Questo è il tempio del Wagashi, l’arte giapponese di confezionare dolci.
Tutto si diceva iniziò intorno al 1500. Anche se, in effetti, la prima data ufficiale è il 1600: la battaglia di Sekigahara. A quel tempo il primo di diciassette generazioni, Kurokawa Enchu, offrì protezione al Daimyo di Inyama, sconfitto e in fuga. Il Daimyo è alta autorità feudale e l’episodio viene riportato in una cronaca conservata al tempio Myoshinji di Kyoto. Già allora, nel regno di Go Yozei (1586 1611), l’azienda di Kurokawa Enchu godeva di tale reputazione da essere nominata fornitrice ufficiale della casa imperiale. Proprio in virtù di tale reputazione consolidata, ne appare molto probabile l’esistenza sin dagli inizi del 1500.
A Toraya si ordinavano Wagashi per le più diverse occasioni, come ricorrenze annuali, nascite, matrimoni. I rapporti con la casa imperiale mai si sono interrotti e continuano tutt’ora. Quando, il 23 ottobre del 1868, l’imperatore con la Corte, durante il periodo Meiji, si trasferì a Tokyo, Toraya lo seguì con la fabbrica.
Cosa sono dunque i Wagashi, i dolci di Toraya? Essi nascono in relazione a contesti storici e ne riflettono gusti e emozioni. Un evento, il susseguirsi delle stagioni, l’anno della tigre o quello, attuale, del maiale. Le olimpiadi o l’uomo sulla luna. Toraya avrà un dolce che, in colori, forma, gusto, rappresenterà quel momento, coinvolgendo tutti e cinque i sensi. I wagashi di Toraya sono fatti con ingredienti naturali, tutti vegetali, con l’eccezione delle uova. Sono i fagioli dolci Azuki, neri e bianchi, lo zucchero giapponese Wasambon, il Kanten, agar agar, polisaccaride gelificante naturale ricavato da alghe rosse di mare. Loro funzione è far godere gusto, olfatto, tatto, vista, udito. Coi sapori, gli aromi, i profumi dei fagioli Azuki, lo yuzu (il cedro giapponese), lo zenzero. Esaltano il tè senza sopraffarlo; fanno sperimentare nuove sensazioni tagliando i dolci con lo speciale attrezzo da wagashi, sfiorando la tessitura unica di ogni confezione. Con differenti forme e colori, scoprendo nel design suggestioni di paesaggi e stagioni giapponesi. Col suono musicale delle parole giapponesi che evocano, nei nomi e nelle immagini, le stagioni, le scene, le storie, la Storia. Un viaggio iniziatico attraverso cinque strati di stimolazioni sensuali che provocano sensazioni gioiose.
I wagashi di oggi, come gli yokan, barrette di gelatina di pasta di fagioli dolci, e il manju (ravioli ripieni cotti al vapore) sono frutto di una lunga evoluzione che parte da quattro archetipi di dolci. I mochi (gli stessi che, nel capolavoro di Soseki Natsume «Io sono un gatto», si incastrano nei denti del felino protagonista), a base di riso glutinoso, tritato e pestato ad ottenere pasta bianca, morbida e appiccicosa, poi foggiata in tipica forma rotonda. I togashi, figli delle paste cinesi, fritte nel grasso bollente, importate in Giappone dagli inviati in Cina dall’VII al IX secolo. I tenjin, pasto leggero tra i pasti regolari, introdotto in Giappone dai preti Zen durante i periodi Kamakura e Muromachi (fine 12-16esimo secolo). Infine i nambangashi, dolci stranieri, letteralmente dei barbari meridionali, giunti dal XVI al XVII secolo a seguito dell’incremento delle relazioni con il Portogallo e la Spagna. Tra questi spicca il kasutera, il pan di Spagna (che, proprio in Spagna, però, si chiama bizcocho, cotto due volte).