il Giornale, 11 gennaio 2019
Il contadino che trova l’acqua in Burkina Faso
Il pazzo del villaggio è diventato il saggio del villaggio, ma la strada che porta alla consacrazione è stata ripida e zeppa di insidie. Yacoubou Sawadogou è un rabdomante, trasforma le terre aride e improduttive del Burkina Faso in zone fertili e rigogliose, scorge l’acqua dove gli occhi di tutti gli altri vedono al massimo pietre e rovi. Per questo è stato giudicato un visionario, un essere delirante rapito da qualche spirito ancestrale. Ha rischiato la vita, è stato inseguito da uomini armati di machete, gli hanno persino bruciato la casa. Normale amministrazione se tenti di sfidare la natura in Africa, dove tutti gli elementi fanno il buono e il cattivo tempo in nome di un animismo che neppure l’introduzione di cattolicesimo e islam riescono a spazzare via. Lui ha trasformato il rosso della terra bruciata nel verde di campi copiosi di frutti e di alberi di ben sessanta specie diverse. Per fortuna qualcuno ha deciso di camminare al suo fianco, credendo nel suo progetto che appariva ai più strampalato e frutto dell’opera del demonio. Per il suo impegno contro la desertificazione del Sahel ha vinto il premio Right Livelihood Award. Si tratta di un Nobel alternativo che viene assegnato a Stoccolma (dove è nato nel 1980 dopo il rifiuto dell’Accademia a creare una categoria Ambiente e Sviluppo) a chi offre risposte pratiche ed esemplari alle maggiori sfide del nostro tempo.
Yacoubou è uno splendido signore di un’ottantina d’anni, ma l’età è approssimativa perché si basa sui raccolti a cui si ricorda di aver preso parte. Figlio di contadini, è nato a Gourga, un villaggio del Sahel, una regione semi-arida stretta tra il deserto del Sahara a nord e la savana subtropicale a sud. Una zona colpita da frequenti siccità, che rendono difficile la vita degli agricoltori. Durante una gravissima carestia negli anni Settanta decise di rimanere nel suo Paese per cercare di trovare una soluzione al disastro, mentre tanti altri abbandonavano campi e villaggi stremati dall’indigenza. Yacoubou decise di recuperare i terreni ormai desertici migliorando l’antica tecnica delle fosse Zai. La tecnica consiste nello scavare delle fosse durante la stagione secca per raccogliere l’acqua piovana dei mesi successivi. Nessuna tecnologia all’avanguardia, quindi, solo delle buche del terreno, le sue mani e la sua zappa, che mostra tuttora con orgoglio.
«Iniziai il mio progetto scavando delle buche durante i circa otto mesi della stagione secca – racconta – riempiendole di foglie, di escrementi animali e di altri concimi che favoriscono non solo la nascita di piante ma anche il riprodursi delle termiti. Queste a loro volta, scavano piccole gallerie che rendono poroso il terreno e aiutano a trattenere l’acqua durante la stagione delle piogge». Yacoubou costruì anche muretti in pietra sempre per trattenere l’acqua. Inizialmente lo derisero e gli diedero del pazzo ma lui resistette e continuò caparbiamente il suo lavoro, che funzionò. Negli anni successivi Yacoubou, assistito da un altro agricoltore, Mathieu, da 17 figli e 40 nipoti, riuscì a creare a Gourga una vera e propria foresta di 50 acri, visibile dal satellite. A quelle latitudini coltiva mais, sorgo e miglio perché, come dichiara lui stesso, «il cibo è indispensabile per l’umanità. Se c’è abbastanza da mangiare e se l’approvvigionamento alimentare è assicurato, allora cresceremo. Ma se non abbiamo abbastanza per nutrirci, non saremo in grado di crescere. Quindi, prima di tutto, dobbiamo garantire la sicurezza alimentare. Trovo davvero fuori luogo fuggire, salire su un barcone e cercare fortuna altrove, quando qui, nell’apparente povero Burkina Faso, abbiamo a disposizione tutto quello che serve per vivere».
Yacoubou non si è trovato a dover combattere solo contro l’ottusità dei suoi concittadini, ma anche purtroppo contro lo scetticismo del governo che gli ha espropriato una parte della foresta, tagliando alberi e costruendo case. Però non si è arreso: ha intentato una battaglia legale ma soprattutto non ha mai smesso di far crescere nuove piante. Ha piantato in questi anni tamarindo, karité, acacie, baobab, erbe medicinali, rendendo stabile la fertilità della terra e creando un’oasi di biodiversità unica nel Sahel. Albero dopo albero, ha ridato vita alla terra desolata. Il premio assegnatogli dal Right Livelihood Award è diventato per l’agricoltore burkinabé un ulteriore trampolino di lancio. Chi lo derideva lo acclama, chi si vergognava di lui adesso chiede il suo intervento per rigenerare le terre desertiche. La sua storia è stata raccontata in un documentario realizzato dal regista britannico Mark Dodd dal titolo L’uomo che ha fermato il deserto. Il film, che mostra anche le difficoltà e l’ostracismo che l’agricoltore ha dovuto affrontare all’inizio della sua avventura, ha contribuito a farlo conoscere meglio al mondo e a diffondere in altre aree del continente africano l’impiego delle sue tecniche. Non solo la pratica delle fosse Zai, ma anche quella dei cordons pierreux, delle micro-dighe che, trattenendo l’acqua, ne facilitano l’assorbimento da parte del terreno. Nelle scorse settimane Yacoubou ha ricevuto inviti ufficiali dai governi di Niger, Mali, Mauritania e Sudan. L’università della Scienza e della Tecnologia di Bamako (che lavora in stretto contatto con quella di Parigi) vuole che tenga un corso ai giovani agronomi, quelli che dovrebbero rappresentare il futuro di un’Africa dalla quale in molti fuggono.
L’improvvisa notorietà sembra confonderlo: «Quando ho ritirato il premio a Stoccolma mi sentivo fuori posto. Parlare a una platea di giovani un po’ mi spaventa, ma se il fine ultimo è la salvezza del mio continente non mi tirerò certo indietro. Voglio che il programma di formazione sia il punto di partenza di molti scambi proficui in tutta l’Africa. Se si rimane nel proprio piccolo angolo, tutte le conoscenze che si hanno non saranno di alcuna utilità per l’umanità».