La Stampa, 11 gennaio 2019
Il Washington Post di Jeff Bezos
Il Washington Post adesso è anche un’azienda di software, una tech company, non solo un quotidiano. Basta farsi un giro in redazione per vedere ingegneri e data scientists seduti nelle scrivanie a fianco dei redattori e dei reporter. Cinque anni e mezzo dopo l’acquisizione per 250 milioni di dollari da parte di Jeff Bezos, fondatore di Amazon, dalla famiglia Graham che lo guidava dal 1933, il giornale della capitale degli Stati Uniti ha cambiato natura e dimensione editoriale, costruendo intorno a una straordinaria capacità di raccontare Washington un nuovo modello di media company centrato su qualità, innovazione, giornalismo e tecnologia.
Il risultato è strabiliante: due premi Pulitzer, una ritrovata rilevanza politica, 90 milioni di utenti unici al mese, oltre un milione di abbonamenti digitali, più di 800 giornalisti e conti di nuovo in attivo dal 2016.
La trasformazione in corso
«Arc Publishing» è un esempio della trasformazione in corso: nel 2014, il Post ha aperto una linea di ricavi che secondo le stime vale circa 100 milioni di dollari l’anno. Arc è una piattaforma digitale, nata prima dell’arrivo di Bezos ma sviluppata con grande intensità successivamente da ingegneri e designer interni, che fornisce servizi print e digital per migliorare la distribuzione e l’efficienza dei contenuti intanto per il Post, ma anche – ed ecco il business – per altri gruppi editoriali, dal Los Angeles Times al Globe and Mail canadese, dal Chicago Tribune al New York Daily News fino al New Zealand Herald e a una decina di quotidiani locali. Arc offre vari software dai nomi a volte evocativi e a volte no (PageBuilder, Websked, Anglerfish, Goldfish, Ellipsis, Loxodo, Bandito, Darwin, Clavis, InContext) che in sostanza aiutano a migliorare la velocità di pubblicazione per i giornalisti, di fruizione per i lettori e l’efficienza per gli investitori pubblicitari. La piattaforma si chiama Arc perché copre l’intero processo editoriale, dalla creazione dei contenuti alla loro monetizzazione, passando dai servizi di hosting, gestione e analisi delle performance dei siti: l’ultimo nato si chiama ModBot ed è un sistema automatico di gestione dei commenti online basato sull’intelligenza artificiale.
Questo aspetto da impresa tecnologica può sembrare lontano dal core business di un quotidiano, che è quello di convincere i lettori a pagare contenuti di qualità, ma la divisione software contribuisce a migliorare il prodotto giornalistico e soprattutto a finanziare il lavoro di inviati e corrispondenti a un livello ormai insostenibile soltanto con i tradizionali ricavi da edicola e pubblicità.
Da quando è arrivato Bezos, il Post ha assunto circa duecento giornalisti e decine di ingegneri, ma l’approccio tech ha creato anche qualche tensione sindacale, con i dipendenti che ora chiedono una fetta del successo, soprattutto sui contributi al fondo previdenziale, una richiesta però estranea alla cultura della Silicon Valley di cui Bezos è un campione.
Continua sperimentazione
Come per il New York Times, l’enfasi è sugli abbonamenti digitali e sulla continua sperimentazione con i social network e con il paywall. Il Post è stato uno dei primi giornali a aderire agli Instant Articles di Facebook, salvo poi esserne uscito completamente. Al Post si procede per esperimenti: nel 2013 il paywall scattava dopo 20 articoli, da allora è stato modulato facendo attenzione a non danneggiare la raccolta pubblicitaria che si misura sulle pagine lette. Durante la campagna elettorale 2016, il numero di articoli gratuiti è sceso a tre. Grazie a questa strategia commerciale e giornalistica, che si basa anche su continui test sulla titolazione per trovare il tono più efficace a convincere i lettori casuali, gli abbonamenti sono più che raddoppiati e, sebbene non ci siano dati ulteriori rispetto a quelli del 2017, più di un milione di sottoscrittori digitali a pagamento, i vertici del quotidiano spiegano che da allora il numero è sensibilmente aumentato, anche se va considerata la sinergia con le offerte e i device di Amazon.
La politica e, soprattutto, le opinioni sono le cose che i lettori del Washington Post cercano di più nel loro giornale, per cui gli sforzi della redazione si concentrano sulla copertura della Casa Bianca e del Congresso, sui commenti all’azione del Presidente e su una settantina di newsletter tematiche.
Quando Bezos ha comprato il Post, il leggendario quotidiano del Watergate faticava più di altri ad affrontare la crisi globale dell’editoria e mostrava una particolare incapacità di stare al passo con le innovazioni tecnologiche. Alcune scelte manageriali poco lungimiranti avevano complicato le cose: la strategia editoriale era controintuitiva, ovvero resistere al calo di vendite e di entrate pubblicitarie ridimensionando le operazioni editoriali e traghettando il Post verso un futuro di giornale locale, abbandonando il campo di battaglia nazionale al più blasonato New York Times.
Il ritardo recuperato
Eppure, qualche anno prima, il Post aveva avuto l’occasione di innovare e di rilanciare, ma si era lasciato sfuggire la più grande idea editoriale degli ultimi decenni, cioè Politico, il sito sulla politica americana che dal nulla è diventato un player fondamentale nel discorso pubblico statunitense, nato dall’intuizione di due giornalisti del Post che non trovando ascolto si sono rivolti ad altri investitori. Il Washington Post pre Bezos era in ritardo anche fisicamente rispetto alla rivoluzione digitale, tanto che la redazione online si trovava in un edificio ad alcuni chilometri di distanza dalla storica sede del giornale, poi abbandonata nel 2015 per quella attuale sulla K street.
L’effetto Bezos, rafforzato da oltre 50 milioni di dollari di investimenti soltanto nel 2015, ha attratto talenti ingegneristici, mentre su quelli giornalistici ha garantito il direttore Marty Baron, diventato un’icona pop dopo il film Spotlight che lo ha ritratto mentre da direttore del Boston Globe orchestrava gli scoop sugli scandali di pedofilia nella Chiesa cattolica.
Nel successo di questa stagione, un ruolo primario ce l’ha Donald Trump, anche se il trend positivo è cominciato prima della sua discesa in campo. Dal 2017 sotto la testata del quotidiano compare il motto «Democracy Dies in Darkness», «la democrazia muore nelle tenebre», una presa di posizione contro Trump che replica minacciando ritorsioni fiscali nei confronti di Amazon.
L’investimento nel Post è cresciuto al di là del valore economico, fino a diventare una specie di responsabilità civica, ma per Bezos non è un’operazione filantropica. «Sono felice che non ci consideri un’iniziativa caritatevole», ha detto il direttore Baron, «perché se a un certo punto si stancasse della charity ci troveremmo in un mare di guai». La posta in gioco è molto alta per tutta l’industria editoriale, ha scritto il New York Magazine, perché oggi il Washington Post ha tutte le carte in regola per farcela, ovvero un proprietario miliardario del settore tecnologico, un direttore geniale, una grande tradizione giornalistica, le risorse necessarie e una cultura che incoraggia l’innovazione: «In altre parole, se non riesce il Post a inventare un nuovo modello di business per i giornali, chi altro potrà farlo?».