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 2019  gennaio 10 Giovedì calendario

1. CHE HA COMBINATO FRECCERO A GUIA SONCINI PER MERITARSI QUESTA OVERDOSE DI BILE? 2. ''FRECCERO È DINO RISI NELLA FASE CONCLUSIVA, IN UN RESIDENCE TRISTISSIMO DAVANTI A VIALE MAZZINI, DOVE UNA PERSONA NORMALE SI FAREBBE VENIRE L'ESAURIMENTO NERVOSO. CI VIVEVA ANCHE QUANDO NON AVEVA PIÙ UN RUOLO ALL’ALTEZZA DELLE DIDASCALIE MA CONTINUAVA A PRENDERE LO STIPENDIO DEGLI ANNI DI GLORIA, COME UN’EX FIDANZATA DISPERATA CHE VOGLIA PRESIDIARE IL TERRITORIO DI QUELL’EX CHE INTANTO S’È RIFATTO UNA VITA...''

L'arcitaliano Carlo Freccero lo conosciamo tutti. È il vicino di casa sbruffone, lo zio mitomane, il genio incompreso della scrivania a fianco, il cognato che imita male il gergo dei figli adolescenti, il capufficio che ne sa meno di noi ma non glielo possiamo dire, il dolente erudito che, lui sì, saprebbe come mettere a posto le cose. È la storia del cinema italiano, lo conosciamo a memoria. 

Carlo Freccero è Bruno Cortona, il Vittorio Gassman del Sorpasso. Quello che si atteggia a esperto di tv americana (o d’altre nazionalità) contando sul fatto che gli altri ne sapranno meno di lui, che butta lì delle citazioni a caso, che sbaglia i nomi (nella conferenza stampa di giovedì ha citato mezza dozzina di volte Alessandro Sortino: tutte le volte, chiamandolo Sciortino). È Gassman quando Trintignant gli dice che un certo testo è di García Lorca e lui: «Ah, ce l’hai pure tu il disco?».

Ma abbiamo tutti una certa età, figuriamoci, i nomi si dimenticano, il vero Bruno Cortona viene fuori sulla sbruffoneria infondata ad ampio spettro: «Se non te la contestano a voce la contravvenzione non è valida», diceva quello passando per piazza di Spagna; sempre giovedì, Freccero ha buttato lì una gamma d’insensatezze che spaziava da «L’ibridazione del reality col game ha creato la docufiction» a «La rete generalista coi suoi contenuti trasformati in premium»: nessuno dei presenti ha chiesto cosa volessero dire le sue affermazioni. È una vita che non glielo chiedono: c’è gente che, con tanta capacità di bluffare, svolta le interrogazioni al ginnasio e poi, da grande, la reimpiega per entrare alle feste alle quali non è invitata; lui, da grande, l’ha usata per farsi scrivere “genio della televisione” nelle didascalie. 

Carlo Freccero è Dino Risi, nella fase conclusiva della sua vita, quella trascorsa in un residence tristissimo. Non si capisce il mistero piccino della tv italiana se non si tiene conto di Carlo Freccero (ma anche di Antonio Ricci, il cui residence è ancora più alienante, trovandosi nelle nebbie appena fuori Mediaset) che da decenni vive in un residence dove una persona normale si farebbe venire l’esaurimento nervoso in poche settimane.

C’è stato un momento in cui il Freccero che vive nel residence di fronte alla sede Rai di viale Mazzini era un’immagine particolarmente triste: erano i tempi in cui non aveva più un ruolo all’altezza delle didascalie ma continuava a prendere lo stipendio degli anni di gloria, in cui coloro che credono alle didascalie si chiedevano perché non si trovasse un’altra collocazione e stesse lì, come un’ex fidanzata disperata che voglia presidiare il territorio di quell’ex che intanto s’è rifatto una vita. Adesso no: adesso è il momento della sovreccitazione, delle tre ore di sonno per notte, del niente da perdere o giù di lì, Rai 1 non gliel’hanno data (come continua a ripetere dando colpe a vescovi e conventicole), ma a Rai 2 in quest’unico anno di contratto che gli concede la legge Madia può fare sfracelli.

Dicono i più cinici che il suo Trintignant sarà Luttazzi, riportato in tv sapendo benissimo che non gli reggeranno i nervi e il repertorio, e che una precipitosa chiusura anticipata varrà a Freccero un mese di rassegna stampa atomica, di quelle che piacciono a lui e per le quali vale pur la pena sacrificare un comico. (Nota personale: all’inizio di questo secolo, ho abitato per tre mesi nel residence di Freccero; in quel periodo ci abitava anche Antonio Socci, e il fatto che da questo dualismo io non sia riuscita a trarre la Grande Sceneggiatura Italiana la dice lunghissima su quant’io sia scarsa come autrice).

Carlo Freccero è Giancarlo Iacovoni, il Sergio Castellitto di Caterina va in città. Certo, bisogna immaginarlo in una versione alternativa della storia, in cui il personaggio resti lo stesso ma cambino le circostanze, in cui l’intellettuale di provincia convinto di saperla più lunga di tutti non sia respinto dalla gente che piace ma ne venga accolto, in cui nessuno scopra i suoi bluff e le occasioni non gli manchino. La guerra di Freccero a Rai 1 – cioè: alla rete che da sempre ritiene un’ingiustizia non essere lui a dirigere – non è mica cominciata tre giorni fa.

Come tutti quelli che sono in giro da decenni, Freccero ha accumulato dispettucci, rivalse, rancori, beghe territoriali. Giovedì, per esempio, ha detto che ci sono su Rai 2 un paio di programmi che sono più da Rai 1. Uno è I fatti vostri, il programma del mattino di Michele Guardì, un signore del cui genio nessuno scrive mai ma che da decenni sta solidamente in cima agli incassi Siae dell’intera tv italiana, un paesaggio inimmaginabile senza di lui. Sono passati vent’anni dall’ultima volta che Freccero ha provato a liberarsi di Guardì: Freccero è passato e tornato, e Guardì sempre lì sta. Nella sintesi di uno che ben li conosce: «Si odiano, ma si stimano. Come Churchill e Mussolini, e come allora ne resterà solo uno». 

Carlo Freccero è Marino Balestrini, il Nino Manfredi di Straziami ma di baci saziami, quello che, dopo aver perso la sua bella, si accinge a riconquistarla ritornando «ricco e shpietato come il conte di Montecrishto». Se non di Guardì, di qualcun altro l’Edmond Dantès della riviera di Ponente dovrà pur potersi vendicare, sennò cos’è tornato spietato (seppure a titolo gratuito) a fare. Era il 2002 quando Carlo Degli Esposti, che ne è produttore, si spese per spostare Montalbano dalla Rai 2 di Freccero a Rai 1; è il 2018 quando Freccero, appena tornato in Rai, blocca la produzione della seconda stagione del Supplente, programma in cui personaggi famosi tengono una lezione a dei liceali, prodotto per pura coincidenza da Carlo Degli Esposti.

Degli Esposti va a trovarlo per ricucire la situazione e, com’è suo costume, porta in omaggio dei tortellini. La discussione si fa animata, dice la leggenda che Freccero bocci le ipotesi di docenti per la seconda stagione, liquidi Piero Angela con «è vecchio, è morto», e dica che il programma avrebbe senso solo se uno dei supplenti fosse Marco Travaglio; dice infine la leggenda che, involontariamente ma creando una tensione drammaturgica insostenibile e un incidente diplomatico che poche rammendatrici saprebbero riparare, Freccero rovesci addosso a Degli Esposti i tortellini.



Carlo Freccero è Cesare Botero, il Nanni Moretti del Portaborse. Quello che «Lo sa che non ho mai letto un libro tutto intero in vita mia? Mai. Però le introduzioni, i risvolti di copertina, le prefazioni… E quelle non le ho dimenticate, eh?», ovvero il più quintessenzialmente italiano in un paese fondato sulle licenze liceali prese solo grazie al Bignami. Come chiunque abbia un’infarinatura, Freccero sa che la mossa più sicura è puntare sui classici. I primi nomi che ha fatto, le prime figure omaggiate dalla rete d’un settantunenne che la pubblicistica s’ostina a considerare giovanile, sono defunti ch’erano nati tra gli anni ’30 e gli anni ’40: Bertolucci, Funari, De André.

E poi Boncompagni, raccontato in conferenza stampa come il suo gemello intellettuale e l’essenza della rete. Giusto vent’anni fa Freccero chiudeva dopo una sola puntata il Crociera di Gianni Boncompagni con queste affettuose parole: «Mi sento tradito da lui e, aggiungo, non è la prima volta» (chissà a che precedenti si riferiva, considerato che l’anno prima la collaborazione tra i due aveva prodotto Macao, il miglior programma mai mandato in onda da Freccero). Quella stessa settimana di fine ’98, Freccero aveva dichiarato all’Espresso «Provo ebbrezza per gli ascolti minimi», una frase che sembra detta apposta per farsela rinfacciare a ogni inciampo nei secoli dei secoli.

Un po’ come quando Botero diceva in Parlamento «io preferisco uomini brillanti ed estrosi, anche se un po’ mascalzoni, a uomini grigi, noiosi, ma onesti». Come Botero, Freccero è fortunato oltre i propri meriti: i primi conduttori da lui parzialmente dismessi, Luca&Paolo e Costantino della Gherardesca, non hanno nessuna intenzione di fare le vittime e si sono affrettati a esortare chi parlasse di censura a prenderla più bassa. D’altra parte neanche Boncompagni aveva fatto un plissé per la chiusura di Crociera: tutti quelli troppo eleganti per far la lagna capitano a Carlo Freccero, beato lui.

 (Nota di contesto: la percentuale da chiusura di Crociera era l’8,85, che per la Rai 2 di vent’anni dopo sarebbe un successone. Nota personale: quando i numeri che oggi fa la tv generalista li faceva la tv satellitare, la frase più lucida sull’insensatezza di certe trasmissioni rivolte ai felici pochi me la disse Freccero a proposito di David Letterman allora trasmesso da RaiSat: «Farebbero prima a mandare una vhs a casa di tutti quelli che lo guardano»).  Carlo Freccero è Gigi Baggini, l’Ugo Tognazzi di Io la conoscevo bene, quello che crede d’essere tra pari e invece è alla festa perché ridano di lui. «Un guitto con un animo da ragioniere», lo definiscono, ma neanche poi tanto, se riesce a incasinarsi mettendosi a parlare male della Juve in conferenza stampa e poi è costretto a peregrinare per programmi sportivi scusandosi (e già che c’è se ne esce con frasi squisitamente alla Baggini: a proposito delle partite da giocarsi nei paesi arabi, ha davvero pronunciato, nel ventunesimo secolo, la frase «Devo dire che queste donne con il velo se si danno anche una bella truccata sono eccitanti»; per non parlare di quant’era bagginiana la sua presenza venerdì in un programma di mezzanotte, Calcio&Mercato, in cui tutto – la scenografia, la conduzione, gli ospiti – sapeva d’una produzione bulgara del 1983, e Freccero con capello cotonato e giubbotto di pelle era emulazione fallita del Renzi che andava dalla De Filippi).

Torniamo a vent’anni fa, negli anni di gloria del freccerismo, ma sempre al tristissimo Residence Prati. Un autore gli porta una videocassetta. Dentro c’è un numero zero in cui un comico sconosciuto fa degli scherzi telefonici. Si chiama provvisoriamente Il tacchino, quando andrà in onda l’anno successivo s’intitolerà Libero e passerà alla storia della tv perché la valletta, Flavia Vento, starà sotto il tavolo (una gag per cui oggi la direzione di Freccero finirebbe per insurrezione femminista a mezzo trending topic).

Freccero vede tre minuti del nastro (il corrispondente televisivo del leggere la quarta di copertina) e lancia una bottiglietta d’acqua contro il muro urlando «In onda domani!». Poi chiede di parlare col conduttore, che sicuramente sarà onorato che il direttore di Rai 2 lo chiami per complimentarsi. Teo Mammucari viene svegliato da una telefonata dell’autore, non capisce chi gli stiano passando, si ritrova nell’orecchio un invasato che gli urla: «Io sono schiacciato dalla tua potenza!». Conclusi i tre minuti di freccerismo, il conduttore richiama l’autore: «Ma chi era quello?».

Carlo Freccero è un intero remake di C’eravamo tanto amati. È il Gianni Perego di Vittorio Gassman, pronto ad adattarsi a ogni convenienza, il dirigente televisivo di cui raccontano che «odiava tutti quelli che avevano incarichi più importanti dei suoi» ma anche che, durante la campagna elettorale del 2001, «si vantava che i suoi programmi stessero debilitando Forza Italia: mai profezia si rivelò più errata», e mai sostegno alla sinistra più ribaltato da un mandato da direttore di rete all’altro.

È il Romolo Catenacci di Aldo Fabrizi, quello che «Io nun mòro», o almeno di questo è convinto in questa fase, quella dell’ebbrezza (per il ritorno, non ancora per gli ascolti minimi); ma anche il Romolo Catenacci che urlava a Gianni Perego «Se sei democratico devi ascoltarmi», con la stessa intenzione con cui Freccero urla «Vergogna»: giovedì, in conferenza stampa, ha urlato che era una «vergogna!» (a un certo punto ha ripetuto quattro volte «vergognose», in un crescendo da operetta) che ai tempi di Rai 4 l’avessero voluto censurare quando mandava in onda Fisica o chimica, una serie con un ragazzino gay, e «adesso sono tutti per i gay»; la sera dopo era in tv a dire che era «una vergogna» non so che rigore concesso alla Juve (un po’ si scusa, un po’ ribadisce: contiene moltitudini).

«Vergogna» è la parola più inflazionata del presente, chiunque abbia un wifi legge fermi inviti a vergognarsi rivolti da tutti a tutti, e il più inascoltato insegnamento di Antonio Ricci è «a Striscia “Vergogna” può dirlo solo il Gabibbo, che è un pupazzo» (differenze di linea editoriale tra residence). Ma Carlo Freccero è analogico – scrive a penna, si fa stampare le mail, adopera il telefono per telefonare, non usa i social – e ha conservato l’innocente convinzione che «Vergogna» sia una parola potente.

Nella sua innocenza, Carlo Freccero è Elide Catenacci, la Giovanna Ralli di C’eravamo tanto amati, quella che «io me credevo che orgasmo voleva di’ prescia», fretta. L’ho capito tre giorni fa, quando stava parlando ai giornalisti del suo contratto d’un solo anno, e voleva dirsi spiritosamente «deperibile», e ha detto «sono reperibile, come lo yogurt», e cosa c’è di più arcitaliano dell’intellettuale con la proprietà di linguaggio d’uno che abbia fatto le scuole serali?