Avvenire, 10 gennaio 2019
Incredibile Churchill, tra trumpismo e fake news
È il 1940: la Gran Bretagna è in guerra contro la Germania e durante l’ispezione di una portaerei il ministro della Marina Winston Churchill viene avvicinato da un giovane ufficiale. «Signore, è tutto vero quello che ci sta dicendo?», gli chiede. «Ragazzo, ho detto molte bugie per il mio Paese e nel futuro ne dirò ancora di più». Qualche mese più tardi lo stesso Churchill annuncia pubblicamente che la flotta britannica ha affondato metà dei sommergibili con cui la Germania aveva iniziato la guerra. Il capitano Arthur Talbot, direttore della divisione antisottomarino dell’Ammiragliato di Sua Maestà, lo contraddice facendogli presente che ne risultano affondati appena 9 su 57. «Ci sono due modi per affondare sommergibili in questa guerra», replica allora il ministro. «Possiamo farlo nell’Atlantico ma anche in Parlamento. Il problema è che voi ci state impiegando il doppio del tempo».
Winston Churchill conosceva molto bene il valore dei fatti. Quando voleva, riusciva a essere puntiglioso fino alla noia. Alla fine degli anni ’30 produsse una quantità impressionante di numeri, statistiche e prove documentali per mettere in guardia la Camera dei Comuni sul riarmo della Germania. Ma conosceva altrettanto bene il valore della finzione e sapeva quando era invece il caso di fare un uso parsimonioso della verità. Di omettere, se non addirittura di celare, pericolose verità.
La sua oratoria era leggendaria e si servì delle sue abilità di narratore per dare forma alla storia del suo Paese. Per elaborare una visione dell’impero britannico profondamente gratificante per il suo popolo, con frequenti citazioni da Shakespeare e da Plutarco, dalla Bibbia di re Giacomo e dalle opere di Malory e Tennyson. «Conosco il popolo britannico, la sua infinita capacità di sopportare, resistere e contrattaccare. La gente di quest’isola è la più dura di tutte», usava ripetere durante i giorni più bui della Seconda guerra mondiale. Non è affatto un caso, sostiene lo storico britannico Andrew Roberts, che nel 1953 Churchill sia stato insignito del premio Nobel per la letteratura per le sue indubbie noti di narratore oltre che per la sua prolifica attività di scrittore.
Roberts ha appena pubblicato una nuova e attesissima biografia del leader britannico, Churchill: Walking with Destiny, nella quale ha analizzato nel dettaglio le sue tecniche oratorie, i suoi memorabili discorsi, il suo modo tutto personale di prepararli e declamarli in pubblico. «A elevarlo al rango di grande statista in tempo di guerra – ci dice – fu soprattutto la sua visione da storico, la stessa che gli consentì di guardare agli assetti strategici dal 1940 in poi paragonandoli alle grandi crisi del passato, l’affondamento dell’Invincibile Armata, le guerre napoleoniche, la Prima guerra mondiale. Avvalendosi di questi precedenti e della sua straordinaria vis oratoria, convinse il popolo britannico che sarebbe riuscito ad avere la meglio anche sui nazisti».
Nei suoi discorsi Churchill faceva largo uso di frasi brevi, di sostantivi monosillabici anglosassoni, di allitterazioni costruite in modo ineccepibile, rafforzate da uno stile iperbolico e dalla sua proverbiale magniloquenza. Ma il suo talento per la fiction non era limitato all’arte di affinare i paragrafi: Churchill non ebbe infatti alcuno scrupolo nel ricorrere spesso a quelle che oggi definiremmo fake news. Alla disinformazione, alla propaganda e alla diffusione di notizie false o di mezze verità, sia in tempo di guerra che di pace.
Il grande leader britannico è forse il personaggio storico più studiato e analizzato dell’era contemporanea. Su di lui sono state scritti centinaia di studi. Il libro di Roberts, autore di una recente biografia di Napoleone, si avvale di importanti materiali d’archivio rimasti finora inediti. «Negli ultimi anni il Churchill College di Cambridge ha reso disponibili decine di nuovi documenti – spiega lo storico – la regina mi ha inoltre consentito di visionare per la prima volta i diari di suo padre, re Giorgio VI, che rivelano molti aspetti dei loro rapporti e dei pensieri di Churchill nei giorni più difficili della Seconda guerra mondiale. Inoltre ho potuto lavorare sulle trascrizioni inedite del Gabinetto di guerra». Churchill era un uomo che credeva fermamente nel suo destino, che non aspirava solo al potere, ma anche alla gloria eterna. Aveva appena sedici anni quando confessò a un compagno di scuola, «prima o poi questo Paese subirà una tremenda invasione. Quando accadrà sarà compito mio salvare l’Impero». Roberts non nega che durante la sua lunga parabola politica abbia commesso molti errori, ma vuole correggere quei biografi che hanno sottolineato le sue colpe cercando di attenuarne il mito. «Tra le sue molte debolezze – prosegue lo storico britannico – c’era quella di non capire molto di economia, di fidarsi delle persone anche dopo che lo avevano deluso più di una volta, e di avere non pochi pregiudizi nei confronti di alcuni popoli».
Era arrogante, vanaglorioso, patriottico e sicuro di sé fino al parossismo ma anche determinato, lungimirante e dotato di un coraggio non comune. Da molti discorsi emerge il suo profilo di guerrafondaio, di sostenitore di una presunta supremazia della razza bianca, di uomo profondamente sessista e snob. Tra i suoi numerosi critici c’è anche un altro statista inglese del recente passato, l’ex primo ministro conservatore Harold Macmillan, il quale lo definì «un aristocratico inglese e al tempo stesso un giocatore d’azzardo statunitense».
Un profilo politico che oggi, in un’epoca dominata dall’ego e dalle fake news, potrebbe quasi farlo accostare a Trump. Ma Roberts ha in mente un paragone di ben altro spessore: «Credo che Churchill sia stato il più grande politico del ’900 e si sia ispirato al più importante statista del secolo precedente: Napoleone. Il generale còrso gli aveva dimostrato che un uomo, da solo, poteva cambiare il mondo e fare la differenza per un’intera nazione. E Churchill aveva una personalità persino più forte di lui».