Donadoni, lei in Arabia Saudita, nell’Al Ittihad di Gedda, visse il suo ultimo campionato da calciatore, stagione 1999-2000: ritiene giusto che si giochi in un Paese così discusso la finale di Supercoppa italiana?
«Nei giorni scorsi ho seguito poco il dibattito. Posso dire con cognizione di causa che si tratta di luoghi dei quali, se non ci vai, non puoi renderti conto. E non bastano certo tre o quattro giorni. Io ci ho vissuto per sei mesi, da novembre ad aprile. La ritengo un’esperienza importante della mia vita, non solo della carriera».
Qual era l’aspetto peculiare, agli occhi di un occidentale?
«Premesso che sono passati più di diciotto anni e che nel frattempo c’è stata qualche apertura, fu subito evidente che si trattava di un Paese in cui la religione influenza profondamente tutto. La Mecca e Medina sono le due città fulcro dell’Islam: i sauditi sanno di avere questo ruolo nel mondo islamico e la cosa si respira in ogni ambito».
Anche nel calcio?
«Il calcio in Arabia è una passione popolare incredibile, poi c’è il basket. Quando, dopo il campionato, vincemmo anche la Coppa del Re, nel derby di Gedda con l’Al Ahly, c’era gente in delirio per noi, sdraiata in mezzo alla strada. Ma non per questo un calciatore straniero famoso era esentato dal rispetto della legge coranica».
Qualche esempio?
«Quando andammo in trasferta a giocare contro la squadra della Mecca, lo stadio era un po’ fuori città e perciò anch’io, non musulmano, ci potevo entrare. Invece il percorso per arrivarci attraversava luoghi sacri. Perciò, mentre i miei compagni viaggiavano tutti in pullman, io fui costretto a un tragitto diverso, in macchina con l’autista. E qualche ora dopo non mi fu permesso di andare con i miei compagni all’ospedale, in visita al nostro capitano, che in quella partita si era rotto tibia e perone».
Fino all’anno scorso le donne non potevano entrare allo stadio.
«Della condizione femminile mi colpì una scena. Ero nel suq con un mio amico, un napoletano che aveva sposato una saudita. Ci seguiva una figura femminile, tutta coperta, e a un certo punto sembrò che si avvicinasse: voleva un autografo. Il mio amico mi ammonì: “Attento, Roberto: se la polizia ti vede, ti porta via”. Erano come due mondi a parte. Vita sociale solo in casa. E nei locali, uomini e donne in zone separate, con possibilità di stare insieme nella zona family soltanto per le coppie sposate».
Sua moglie era con lei?
«Sì, anche se non ininterrottamente. Cristina andava e veniva dall’Italia. Quand’era a Gedda, doveva vestirsi con l’abaya e mettere il velo, sempre. La polizia morale, i mutawa, vigilava col frustino per chi sgarrava. Ogni casa, incluse le ville più lussuose, aveva un’alta paratia per impedire la vista di donne senza abaya e niqab. E sulla spiaggia, oltre le paratie a protezione dell’area femminile, le donne dovevano fare il bagno vestite».
I diritti umani in Arabia Saudita: un problema che incombe su Juventus-Milan.
«Noi sapevamo che piazza Dirah, a Gedda, era il luogo delle esecuzioni e delle lapidazioni. Si sapeva che mettevano le transenne e che poi il boia arrivava con la scimitarra. Sono contesti in cui non è facile stare, devi essere preparato».
Lei come ha fatto?
«Io ho fatto il calciatore e da quel punto di vista è stata una bella esperienza: tra l’altro ero a fine carriera ed è stato a Gedda che ho iniziato a fare in pratica il vice dell’allenatore, un brasiliano. Così ho capito che quella era la mia strada. L’entusiasmo della gente mi ha aiutato».
Lo stesso entusiasmo è annunciato per Juventus-Milan, con tanto di previsioni climatiche ideali: ma basta questo, per ignorare il resto?
«Da anni, ormai, il calcio in Arabia è a un buon livello e stadi e campi di allenamento sono perfetti. Lo stadio di Gedda in cui giocavo io non era lo stesso di adesso, conteneva 35 mila spettatori, ma era comunque sempre pieno. Io, due anni dopo avere smesso, tornai là volentieri, con lo sponsor che mi aveva portato all’Al Ittihad, altrimenti non avrei potuto. Alla domanda, dunque, posso rispondere ribadendo la mia sensazione: sono posti di cui non ci si può rendere conto, se non ci si va».