la Repubblica, 10 gennaio 2019
Scappati di casa unitevi
Oggi dire «scappato di casa» è di moda e, nella turpiloquente polifonia generale, suona pressoché garbato. Così il leghista Claudio Borghi ha bocciato la riduzione dell’indennità parlamentare proposta dai suoi partner di maggioranza: «È ovvio che il nostro stipendio può sembrare stellare se candido uno scappato di casa».
Il modo di dire richiama l’espressione arcaica «fare fagotto» e l’immagine dickensiana di una creatura impubere che, con i pochi averi annodati a un bastone nel fazzoletto, si inoltra immagonita in un mondo di orchi. «Sembri uno scappato di casa» lo dicevano nonni e genitori agli attuali settantenni, vedendoli con jeans e maglioni grezzi anziché incravattati o col tailleur e il filo di perle d’ordinanza. La metafora sembrava perciò destinata al magazzino delle maleparole desuete, assieme a «scemo di guerra» e «mangiapane a tradimento». E invece no: è tornata fuori e ricorre, ricorre. Di volta in volta può significare incompetente, inaffidabile, tendenzialmente criminale, puttaniere, malvestito, malfamato, affamato: impresentabile.
«Eravamo un gruppo di scappati di casa» ha detto, di sé e della band dello Stato Sociale, Lodo Guenzi quando lo hanno scelto come giudice di X Factor. Sorrideva sugli stentati inizi di carriera, come può capitare a chi ha appena firmato un contratto sostanzioso. Forse citava anche Scappati di casa, rap di Gué Pequeno, risalente al 2013. Che sia un rapper in classifica o un ministro in carica, l’asserito «scappato di casa» si pone o almeno si dipinge come estraneo a ogni élite. La sua carta vincente è essere stato finora un perdente. Tra i diversi e variegati motivi della diffusione del modo di dire c’è, subliminale, l’evocazione del successo ottenuto per inopinato rovesciamento di una condizione invece svantaggiata. «Sono scappato di casa, ma non sono uno scappato di casa»: la dichiarazione del deputato Matteo Dall’Osso, che lo scorso dicembre ha lasciato il Movimento 5 Stelle per Forza Italia, è notevole perché attesta come la categoria goda di un’esistenza autonoma. L’incombenza totemica della «casa» ha peraltro segnato i passaggi di carriera decisivi per un più celebre alleato di Berlusconi: quel Fini che rifondò l’estrema destra con la metafora dell’«uscita dalla casa del padre», entrò nella Casa delle Libertà, sfidò Berlusconi a colpi di «che fai, mi cacci?» (implicito: di casa) e infine proprio sulla mesta alienazione di un appartamento vide interrotta la sua vicenda politica. Dall’altra parte, risale al satirico Cuore (o forse già all’originale deamicisiano) il mito della “Casa comune della sinistra”. «Il Pd resta casa mia» lo si è sentito dire da parecchi, anche poco prima del loro abbandono e da ultimo da Matteo Renzi.
Ma di che cosa, e di che casa, stiamo parlando? La casa in senso proprio sono le mura che una volta proteggevano noi e che ora da noi vanno difese, e la legge ci consente di farlo a mano armata.
Avevamo un’altra idea di umanità, un’altra idea di noi stessi, un’altra idea di casa nostra. «A casa loro» vorremmo i profughi, mentre chiamiamo «scappato di casa» chi ci appare carente per competenza o anche solo per immagine. Sono esorcismi: come sospettiamo, in realtà è la casa a essere scappata da noi.