La Stampa, 10 gennaio 2019
Alla Scala nella “buca” dell’orchestra. Così ho visto Attila prendere vita
Prima considerazione: come luogo di lavoro, è sicuramente più bello di una redazione. Anzi , è forse il più bello del mondo, specie quando il lampadario si spegne, restano accese solo le luci dentro il rosso dei palchetti e il teatro sembra abbracciarti. Da qui, però, tutto è diverso: la sala, il suono, il brusio del pubblico. Questione di punti di vista, letteralmente.
Sono nella buca dell’orchestra della Scala, il golfo mistico, volendo dare sul wagneriano: fra la sala e il palcoscenico, sotto il livello delle poltrone. Dopo 1.676 recite d’opera viste da spettatore, dal piano della platea all’alto dei palchi all’altissimo delle gallerie, stavolta lo faccio dal bassissimo della «fossa». È l’ultima della «prima» del 7 dicembre: ottava e definitiva recita di Attila di Verdi. Non sono imbucato in buca: la full immersion è stata concordata con il Teatro, ha detto di sì il maestro Riccardo Chailly, l’orchestra è stata consultata, l’ufficio stampa idem. Così alle 19.30, munito di un abito scuro, di un pass e di uno spartito canto e piano dell’opera, mi ritrovo dentro un quadro di Degas (anche se, fateci caso, quando la dipingeva lui l’orchestra dell’Opéra suonava ancora al livello della platea e soprattutto rivolta verso il palcoscenico, non dandogli le spalle come succede oggi).
Seduto al tamburo
Il gentilissimo addetto Alejandro Magnin mi offre una cravatta rosso-Scala perché, sbagliando, io l’ho messa scura, e mi indica il posto dove passerò le prossime tre ore in compagnia dei professori, di Chailly e di Verdi. Sono proprio in fondo: a sinistra, ho tamburo (ma suona solo nel Prologo, poi il relativo professore, Gerardo Capaldo, andrà dietro le quinte a suonare le campane del corteo del Papa venuto a fermare Attila sulla via di Roma), piatti, grancassa e timpani; davanti, l’arpa di Luisa Prandina e le coppie di fagotti e clarinetti; a destra, il primo contrabbasso, Giuseppe Ettorre; dietro, la posizione del suggeritore, che fa una pericolosa rientranza in dentro, per fortuna con gli spigoli coperti di gommapiuma, segno che non sono il primo che rischia di rompercisi le corna. Il podio sopraelevato del direttore è proprio di fronte.
I musicisti arrivano alla spicciolata. Quando compare il mitico Danilo Rossi, prima viola, ci facciamo le solite risate. Per misteriose ragioni, nelle barzellette della «classica» i violisti hanno lo stesso ruolo dei carabinieri. E Danilo le sa tutte: «Un violista e un violinista precipitano insieme dal decimo piano. Chi si spiaccica per primo? Il violinista. E perché? Perché il violista sbaglia strada».
L’atmosfera è quella di qualsiasi posto di lavoro all’inizio della giornata, anzi della serata: saluti, battute, pettegolezzi. I miei dirimpettai sono impegnati in una complicata discussione sul responso di un commercialista. La concentrazione totale che subentra quando si spengono le luci è quindi ancora più impressionante. Anche Chailly, che giù dal podio è di un aplomb britannico, quando è sopra sorride, ammicca, strizza perfino l’occhio. Il gesto, ma quello lo vediamo anche dalla platea, è chiarissimo: avessi uno strumento in mano, saprei quando attaccare.
Esperienza musicale
Stare qui è una curiosa esperienza anche dal punto di vista musicale. Per un’ottantina di persone che suonano insieme musiche non facili in uno spazio ristretto, il problema è riuscire ad ascoltarsi l’uno con l’altro. Per esempio, si sa che con le percussioni Verdi ci dà parecchio dentro; io sono a mezzo metro da Gianni Arfacchia che lavora di piatti e alla fine mi sembra che il mio orecchio sinistro abbia assunto le dimensioni di quello di Dumbo. In certe strette il pavimento vibra, mentre dal palcoscenico arrivano tonfi e boati quando ci sono movimenti di massa o si spostano le scene kolossal dello spettacolo di Davide Livermore. Altri momenti sono invece pura beatitudine musicale: per esempio, quando arriva la romanza del soprano, accompagnata solo da flauto, corno inglese, arpa, violoncello e contrabbasso, musica da camera che ti dà l’impressione di fluttuare in una nuvola, anzi nel «fuggente nuvolo» in cui Odabella crede di vedere il padre ucciso da Attila, da qualche parte lassù in scena.
Da quaggiù il coro si sente quasi nulla e i solisti poco, a parte quando vengono al proscenio e si piazzano nel famoso «punto Callas», che nell’imperscrutabile acustica della Scala funziona da amplificatore naturale. Quanto a cosa si vede dello spettacolo, da dove sono io la risposta è: niente. Per le signore è un peccato specie quando in scena c’è Attila, il basso Ildar Abdrazakov, gran voce, carisma da vendere e pure belloccio, quindi attuale idolo della Milano operistica. Alla fine della sua aria una dei secondi violini si alza in piedi per berselo con comodo con gli occhi.
Il pubblico è una massa nera
Però lo spettacolo è la sala quando qualche affetto scenico, per esempio le fiamme o i tuoni, la illumina: la Scala tutta davanti a te, meraviglia. Quanto al pubblico, è una massa nera che si manifesta solo quando qualche maledetto scatta foto con il flash nonostante i severissimi divieti e quando applaude. A proposito: non è un successo, è un trionfo, con tante chiamate che superIldar si commuove pure (beh, è l’ultima recita, ci sta). L’orchestra resta fino alla prima uscita di Chailly, poi taglia la corda. Io rimango per applaudire, e qui è uno spasso quando dal palcoscenico mi nota stupefatto il maestro del Coro, Bruno Casoni, e sicuramente si chiede cosa diavolo io ci faccia in buca. Me lo chiedo in effetti anch’io: ma è stata una bella esperienza.