10 gennaio 2019
In morte di Fernando Aiuti
Carla Massi per il Messaggero
L’entrata del suo ambulatorio era in viale dell’Università. Un piccolo cancello, su uno dei lati del Policlinico Umberto I di Roma, portava ad un corridoio lungo e stretto dove era il servizio di Immunologia. È stato nel 1982 che quelle sale d’aspetto, fino ad allora affollate da bambini allergici o pazienti immunodepressi, sono diventate un approdo per i pazienti sieropositivi e chi era malato di Aids.
Lì, il professore Fernando Aiuti, alla guida di un drappello di medici e specializzandi è stato tra i primi, nella Capitale, a visitare uomini e donne che avevano contratto il nuovo virus, l’Hiv. In fila, dalla mattina presto, c’erano il ragazzo tossicodipendente a fianco del coetaneo emofilico che si era infettato con una maledetta trasfusione, la giovane mamma con il bimbo sieropositivo perché aveva scambiato la siringa dell’eroina durante la gravidanza, tanti gay spaventati dalla malattia e dallo stigma che la malattia stessa gli aveva buttato addosso. Aiuti, determinato e secco, parlava e visitava tutti. Nel suo studio, appese al muro, foto di lui con la famiglia in barca a vela. Uno scorcio di luce e di speranza nel suo studio.
Con ognuno un linguaggio diverso perché diverse erano le condizioni anche se l’infezione accomunava tutti. Un’infezione democratica che lui cominciava a studiare e conoscere insieme ai suoi pazienti.
«Siamo stati travolti – diceva due anni dopo la comparsa dei primi casi nel mondo, nel 1984 – e temo che questa struttura non ce la possa fare. Temo che non si riescano a fare le analisi con la precisione che vorrei e con i tempi che vorrei».
Il professore, se non filava tutto come voleva, te lo faceva capire con chiarezza. Niente giri di parole, parlava a viso aperto e su ogni battaglia che ha fatto ci ha messo la faccia. Ha dovuto faticare parecchio per dare voce ai pazienti e far circolare informazioni corrette sull’infezione, nel 1985, é tra i fondatori, con medici, ricercatori, attivisti e volontari, dell’Anlaids, (Associazione Nazionale per la Lotta contro l’AIDS). Ha sempre dovuto alzare la voce. Sia da medico che, in tempi più recenti, da capolista Pdl al Campidoglio nel 2008. L’immunologo non doveva solo visitare e utilizzare quei pochi farmaci che all’inizio erano a disposizione ma doveva lottare contro un mondo, fuori che faceva fatica a comprendere.
Lui si batté contro lo stigma nei confronti degli omosessuali e dei tossicodipendenti. Baciò in pubblico, 28 anni fa, Rosaria Iardino, giovane sieropositiva, per dimostrare al mondo che la saliva non trasmette la malattia. Oggi Rosaria si batte ancora per i diritti dei sieropositivi e dice che «quel bacio è stato un grande atto di coraggio». La foto ha fatto il giro del mondo. è servita più di tante parole. Nel 94 ancora lotta contro i pregiudizi. Rompe un altro tabù: porta i profilattici nelle scuole. Durante una conferenza davanti a mille studenti di tre superiori a Velletri. Ha distribuito a pioggia, aiutato dalla figlia, un centinaio di confezioni agli studenti, in presenza dei loro insegnanti. «è stato un gesto simbolico – disse -. Per la prima volta in Italia sono stati distribuiti profilattici in una scuola pubblica. Oggi e’ un giorno importante».
Lì, il professore Fernando Aiuti, alla guida di un drappello di medici e specializzandi è stato tra i primi, nella Capitale, a visitare uomini e donne che avevano contratto il nuovo virus, l’Hiv. In fila, dalla mattina presto, c’erano il ragazzo tossicodipendente a fianco del coetaneo emofilico che si era infettato con una maledetta trasfusione, la giovane mamma con il bimbo sieropositivo perché aveva scambiato la siringa dell’eroina durante la gravidanza, tanti gay spaventati dalla malattia e dallo stigma che la malattia stessa gli aveva buttato addosso. Aiuti, determinato e secco, parlava e visitava tutti. Nel suo studio, appese al muro, foto di lui con la famiglia in barca a vela. Uno scorcio di luce e di speranza nel suo studio.
Con ognuno un linguaggio diverso perché diverse erano le condizioni anche se l’infezione accomunava tutti. Un’infezione democratica che lui cominciava a studiare e conoscere insieme ai suoi pazienti.
«Siamo stati travolti – diceva due anni dopo la comparsa dei primi casi nel mondo, nel 1984 – e temo che questa struttura non ce la possa fare. Temo che non si riescano a fare le analisi con la precisione che vorrei e con i tempi che vorrei».
Il professore, se non filava tutto come voleva, te lo faceva capire con chiarezza. Niente giri di parole, parlava a viso aperto e su ogni battaglia che ha fatto ci ha messo la faccia. Ha dovuto faticare parecchio per dare voce ai pazienti e far circolare informazioni corrette sull’infezione, nel 1985, é tra i fondatori, con medici, ricercatori, attivisti e volontari, dell’Anlaids, (Associazione Nazionale per la Lotta contro l’AIDS). Ha sempre dovuto alzare la voce. Sia da medico che, in tempi più recenti, da capolista Pdl al Campidoglio nel 2008. L’immunologo non doveva solo visitare e utilizzare quei pochi farmaci che all’inizio erano a disposizione ma doveva lottare contro un mondo, fuori che faceva fatica a comprendere.
Lui si batté contro lo stigma nei confronti degli omosessuali e dei tossicodipendenti. Baciò in pubblico, 28 anni fa, Rosaria Iardino, giovane sieropositiva, per dimostrare al mondo che la saliva non trasmette la malattia. Oggi Rosaria si batte ancora per i diritti dei sieropositivi e dice che «quel bacio è stato un grande atto di coraggio». La foto ha fatto il giro del mondo. è servita più di tante parole. Nel 94 ancora lotta contro i pregiudizi. Rompe un altro tabù: porta i profilattici nelle scuole. Durante una conferenza davanti a mille studenti di tre superiori a Velletri. Ha distribuito a pioggia, aiutato dalla figlia, un centinaio di confezioni agli studenti, in presenza dei loro insegnanti. «è stato un gesto simbolico – disse -. Per la prima volta in Italia sono stati distribuiti profilattici in una scuola pubblica. Oggi e’ un giorno importante».
***
Maria Novella De Luca per la Repubblica
Forse è caduto, forse si è lasciato cadere. Sul pianerottolo del policlinico Gemelli sono rimaste soltanto le sue pantofole. Un tonfo di dieci metri accanto al reparto in cui era ricoverato. Poi il silenzio. Ferdinando Aiuti, uno dei più grandi immunologi italiani, il primo e il più tenace pioniere della lotta all’Aids nel nostro paese, è morto così, ieri mattina, a 83 anni. Ultimo atto di una vita dedicata alla cura (e alla difesa), di quei malati che negli anni Ottanta la società respingeva e metteva al bando, come fossero portatori — addirittura — di una nuova peste. Nel 1991 il suo bacio sulla bocca a una ragazza sieropositiva, Rosaria Iardino, che allora aveva 25 anni, oggi ne ha 52, catturato da una foto in bianco e nero, diventò un formidabile spot contro la discriminazione che colpiva le vittime della sindrome da immunodeficienza acquisita.
Così raccontava Aiuti: «Erano anni tremendi. Morivano tutti. Il primo paziente infetto arrivò nel mio istituto nel 1983. Eravamo in trincea. C’era uno spaventoso stigma sociale: i sieropositivi facevano paura, per questo baciai Rosaria. I dentisti si rifiutavano di curarli, i colleghi medici pretendevano camere operatorie separate, i malati venivano licenziati, i bambini espulsi dalle scuole. La cosa più dura era veder morire i bambini. Se pensiamo che oggi di neonati positivi non ne nascono più, che ho pazienti in vita infettati addirittura nell’87, è evidente la rivoluzione portata dai farmaci. Ma sopravvivere non vuol dire che abbiamo vinto. Si deve tornare al test di massa, soltanto così fermeremo il virus».
Scienziato di fama mondiale, nato a Urbino nel 1935, autore di oltre 600 pubblicazioni, Aiuti è stato dal 1985 primario di Immunologia a Allergologia clinica al policlinico “Umberto I” di Roma. E da qui, dalla “trincea” del grande ospedale romano, punto di riferimento per i malati di tutta Italia, Ferdinando Aiuti aveva lanciato la sua campagna non soltanto contro la malattia, ma anche contro il folle “apartheid” nel quale venivano confinati i sieropositivi, fondando nel 1985 l’Anlaids, l’associazione nazionale per la lotta contro l’Aids. Una lotta che si doveva basare su ricerca, cura, ma soprattutto su prevenzione e test di massa. Proprio o questo era, infatti, il messaggio della prima campagna italiana contro l’Hiv, lanciata dal ministero della Sanità nel 1989: «Aids, se lo conosci lo eviti, se lo conosci non ti uccide».
Una battaglia che sfidava morale e censure, visto che nella prima fase di diffusione dell’Hiv, le categorie più colpite furono quella degli omosessuali e quella dei tossicodipendenti. Campagne per l’uso dei profilattici, per il sesso sicuro, per la distribuzione di siringhe pulite. Uno “scienziato attivista”, uno dei primi, così lo ha ricordato infatti Stefano Vella, ex presidente dell’International Aids Society, amico, collega e compagno di battaglie di Aiuti al policlinico “Umberto I”. «È stato un grande immunologo, precursore di molte scoperte sull’Hiv. Ma sapeva nello stesso tempo che la battaglia contro la malattia era anche sociale e politica». Si deve infatti alla tenacia di Ferdinando Aiuti, la nascita di una legge fondamentale per l’assistenza ai malati di Hiv, la legge 130 del 1990. Enormi le risorse che vengono stanziate per creare, in tutti gli ospedali, centri che garantiscano cure gratuite per tutti. Scomodo, battagliero, ruvido, Ferdinando Aiuti ha avuto anche una breve parentesi politica tra il 2008 e il 2013, prima con il Pdl, poi con la giunta Alemanno a Roma, ma senza essere eletto. Anche un suo storico “nemico”, Vittorio Agnoletto, medico, fondatore della “Lila”, lega italiana lotta all’Aids, ricorda la passione civile di Aiuti. «Ci univa l’impegno nella lotta contro quella che era definita all’epoca la “peste del secolo” e ci univa la richiesta ai governi di superare falsi integralismi e moralismi e a mettere al primo posto la prevenzione, perché in Italia si parlasse apertamente dell’uso del profilattico».
Nel 1996 l’arrivo dei farmaci antiretrovirali, cambia la vita dei sieropositivi. Come Rosaria Iardino ad esempio, infettata a 17 anni, ma oggi ancora viva. «Noi dovevamo morire tutti», raccontano i long survivor, circa 150mila in Italia, «negli anni Ottanta se ti ammalavi avevi pochissime speranze di sopravvivere». Poi la rivoluzione. Con quei farmaci la malattia si cronicizza, di Aids non si muore più. Ma la malattia non è vinta. Soltanto un mese fa, Aiuti ammoniva: «I giovani non sanno niente di Aids, sono scomparse le campagne istituzionali di prevenzione. Ma l’Aids colpisce ancora, con 3.500 nuove infezioni all’anno. Servono campagne di massa per invitare a fare i test per l’Hiv». Un appello, che suona come un testamento per le generazioni future.