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 2019  gennaio 10 Giovedì calendario

Biografia di Matteo Renzi

Matteo Renzi, nato a Firenze l’11 gennaio 1975 (44 anni). Politico. Senatore del Pd (dal 23 marzo 2018). Già presidente del Consiglio (2014-2016), sindaco di Firenze (2009-2014), presidente della Provincia di Firenze (2004-2009). Ex segretario del Pd (2013-2017; 2017-2018). «Meglio arroganti che simpatici senza combinare nulla» • Crebbe a Rignano sull’Arno, «9 mila abitanti, 23 chilometri da piazza della Signoria. Il padre Tiziano – piccolo imprenditore che diventerà consigliere comunale per la Dc – e la madre Laura Bovoli vivono in un palazzone di via Vittorio Veneto, con la primogenita Benedetta di tre anni (nel 1983 arriverà Samuele e nel 1984 Matilde, l’unica impegnata nei comitati elettorali del fratello). Dopo un mese di prima elementare, la maestra, signora Persello, lo promuove: il bambino è sveglio, può passare in seconda. Serve messa a don Giovanni Sassolini, parroco di Santa Maria Immacolata. Gioca stopper nella Rignanese, ma riesce meglio come arbitro e come radiocronista. […] Si fa eleggere rappresentante di classe. Entra negli scout. Guida un gruppo in una gita in Garfagnana: si perdono in un bosco, passano la notte all’addiaccio. I compagni lo chiamano “Mat-teoria”, perché parla parla ma poi a lavorare sono sempre gli altri. […] Al liceo lo chiamavano “il Bomba”, perché le sparava grosse. Così almeno raccontò un suo ex compagno in una perfida telefonata a un’emittente fiorentina, Lady Radio. Avevano sorriso anche i professori, leggendo il suo articolo su “Il divino”, mensile del liceo-ginnasio Dante di Firenze: “Forlani ha commesso molti errori, anche nella formazione delle liste, e dovrà passare la mano, com’è giusto che sia per un segretario che perde il 5%. La Dc deve veramente cambiare, in modo netto e deciso, mandando a casa i Forlani, i Gava, i Prandini e chi si oppone al rinnovamento…”. Era il 1992. Matteo Renzi aveva 17 anni. […] Nel 1994, mentre l’Italia antiberlusconiana inorridisce nel vedere il padrone delle tv private entrare a Palazzo Chigi, Renzi va nelle tv private di Berlusconi: in cinque puntate della Ruota della fortuna con Mike Bongiorno vince 48 milioni. L’anno dopo, a vent’anni, fonda a Rignano un circolo in sostegno di Prodi. Nel 1999 si laurea con una tesi su “La Pira sindaco di Firenze” e sposa Agnese Landini, conosciuta agli esercizi spirituali nell’Agesci. Organizza la rete di strilloni per conto dell’azienda del padre, per distribuire La Nazione in strada. Con i soldi che ha guadagnato parte assieme agli amici scout per il Cammino di Santiago: una settimana di pellegrinaggio a piedi. Al ritorno i capi gli propongono di candidarsi alla guida del Partito popolare di Firenze, che ha appena toccato il minimo storico: 2 per cento. Renzi accetta, e vince il congresso. Segretario nazionale è Franco Marini» (Aldo Cazzullo). «"Basta con lo strapotere rosso", fu l’esordio di Matteo Renzi in politica come segretario della Margherita fiorentina. Era il 2001. […] "La Margherita non è la solita pizza", fu una delle prime invenzioni per farsi spazio nel cuore della "Toscana rossa". Fin dall’inizio apparve chiara a tutti l’abilità tattica del giovane valdarnese, fino a quel momento conosciuto solo come portaborse del deputato Lapo Pistelli. E, quando nel 2004 tra Ds e Margherita si aprirono le trattative per la presidenza della Provincia, Renzi segretario si trasformò in Renzi presidente. Per 5 anni studia e prepara il grande salto verso Palazzo Vecchio, mentre in Italia nasce il Pd. E non indietreggia neppure di fronte ai "consigli" di lasciar perdere che gli arrivano dall’allora segretario Veltroni: la successione a Leonardo Domenici alla guida di Firenze si gioca con le primarie e Renzi ci si getta senza paracadute. Il 15 febbraio 2009 vince le primarie con il 40%, sbaragliando a sorpresa anche il favorito Pistelli. Per il Pd a maggioranza ex-Ds è un colpo basso. Ma la strada è ormai sgombra. Il 22 giugno dello stesso anno vince al ballottaggio il confronto elettorale con l’ex portiere della fiorentina Giovanni Galli, candidato dal centrodestra, e diventa sindaco di Firenze. La sua prima mossa è pedonalizzare piazza Duomo, cancellando anche il passaggio della tramvia come chiedeva Forza Italia. Un anno dopo, solo un anno dopo, punta la ribalta nazionale. Consapevole dell’effetto-shock, decide di riutilizzare la formula della "rottamazione senza incentivi" che già aveva usato anni prima. E il 29 agosto esce la sua intervista su Repubblica con la quale attacca l’intera classe dirigente del centrosinistra: "Tocca a noi, tocca alla nostra generazione" è il messaggio. Nel novembre successivo lancia la "Stazione Leopolda" con Pippo Civati. Una formula nuova che s’impone come il meeting dei rottamatori, con l’obiettivo di dare la sveglia ai vertici Pd. Un anno dopo, la Leopolda si presenta con il titolo "Big Bang" e i dinosauri raffigurati sulle pareti, a testimoniare la voglia del "tutti a casa" nei confronti del gruppo di vertice del partito. Matteo Renzi si decide a dare la scalata al Pd, nella convinzione che il partito sia ormai contendibile. E nel lancio si assembla il gruppo che sfocerà poi nel "Giglio magico". La popolarità di Renzi cresce di colpo, e un anno dopo, il 13 settembre 2012 a Verona, Renzi inaugura il suo viaggio in camper per tutta l’Italia con lo slogan "Adesso". I sondaggi danno il Pd in ripresa. Bersani è ormai la controparte, e lo scontro è inevitabile. Si tengono le primarie per la leadership, ma Renzi ne esce sconfitto: il 2 dicembre finisce con Bersani al 60% e Renzi al 40%. Renzi ammette la sconfitta. Le elezioni del 2013 si concludono con la "non vittoria" del Pd di Bersani. E le primarie successive sono per Renzi una marcia trionfale: l’8 dicembre 2013 diventa segretario del Pd» (Massimo Vanni). «Il nastro della corsa di Renzi va riavvolto al 22 aprile 2013, quando, dopo la rielezione di Napolitano, Renzi capisce che il capo dello Stato cerca un premier che abbia anche le caratteristiche per mettere al riparo il governo dai tuoni dell’antipolitica grillina. Renzi si fa avanti, trova consensi all’interno del partito, capisce che di fronte alla possibilità di andare a Palazzo Chigi il Pd gli avrebbe detto di sì, e prova a giocare la sua partita. Una partita che Renzi perde, ma che sarà decisiva per convincere il sindaco che per conquistare il Paese bisogna prima conquistare il Pd. Passano i mesi, arriva il governo Letta, arrivano le prime difficoltà e i primi pasticci, e durante l’estate comincia la marcia del rottamatore: il sindaco decide – lo annuncerà più avanti – di candidarsi alla segreteria e inizia a costruire attorno a sé una rete di contatti extra-politici che nel corso dei mesi darà i suoi frutti. […] E così, 13 luglio, Renzi, guidato dall’amico Marco Carrai, dà il “la” al suo tour da presidente del Consiglio ombra: arriva l’incontro con Merkel, arrivano i contatti con i poteri che contano. […] I mesi passano, Renzi si candida, si prepara a vincere le primarie, si convince che per togliere di mezzo il governo sarebbe stato necessario votare con il Porcellum, ma poi si arriva al 5 dicembre del 2013 e cambia tutto: la Consulta dichiara il Porcellum incostituzionale, e per la prima volta Renzi confessa a un suo collaboratore a Palazzo Vecchio che il piano B è quello: se non si riesce a fare la legge elettorale, si rottama Enrico e si va a Palazzo Chigi» (Claudio Cerasa). «Letta […] dice di voler lavorare con il cacciavite per risolvere i problemi. Nel frattempo, il giovanissimo Renzi […] lavora di ruspa. Letta che fa? Non si schiera nelle primarie, e propone a Renzi, nel frattempo trionfalmente eletto, un curioso patto: io governo e aggancio la ripresa, tu mi reggi il bidone del partito, grazie. “Sta’ sereno” è la risposta del fiorentino (Letta è pisano). Passa un po’ di tempo, e Letta si vede passare sopra il treno del Patto del Nazareno: Renzi fa un accordo di riforma della legge elettorale e della Costituzione con Berlusconi. Forse a quel punto Enrico intuisce che le cose potrebbero mettersi male, forse, ma con Alfano e il cacciavite si sente forte abbastanza. I giornali lo blandiscono, è il re degli Ambrosetti. Sappiamo come finì. Con il governo Renzi fondato sul patto con il Cav. eccetera. […] La disinvoltura e la volontà di potenza contro una burbanzosa, pretenziosa e insipida squadretta di lobbisti: non c’era partita» (Giuliano Ferrara). Fu così che, a 39 anni e 11 giorni, Renzi giunse a Palazzo Chigi, diventando il più giovane presidente del Consiglio della storia d’Italia (primato prima detenuto da Benito Mussolini, asceso al potere a 39 anni e 94 giorni): con una rapidissima consegna del campanello da un gelido Letta a un Renzi trionfante, «il suo governo nacque, dopo una crisi di appena otto giorni, il 22 febbraio 2014. Renzi partì sgommando, con trenta giorni di fuoco. Depositò subito l’Italicum alla Camera. Promise un aumento di 80 euro a chi guadagnava meno di 1.500 euro al mese. Diede il via all’abolizione delle Province. Annunciò la riforma della Pubblica amministrazione. E varò il Jobs Act, la legge che avrebbe dovuto rivoluzionare il mercato del lavoro. L’iperattivismo del giovane premier piaceva agli italiani, che alle Europee del 25 maggio lo premiarono – dando uno schiaffo a Grillo che già cantava vittoria – con una percentuale mai raggiunta dalla sinistra: 40,8 per cento. E lui accelerò ancora di più. Spingendo il Parlamento ad approvare rapidamente il divorzio breve. Varando il decreto "Sblocca Italia" per velocizzare le opere pubbliche. E incaricando la fidatissima e instancabile Maria Elena Boschi di portare presto al voto la riforma costituzionale. La feroce battaglia che arroventò per settimane Palazzo Madama, fino al voto dell’8 agosto in un clima da resa dei conti, invece di frenarlo lo gasò ancora di più. Eppure fu forse in quel preciso momento che nacque l’antirenzismo, fino ad allora rimasto sottotraccia nei mugugni interni del Pd e nelle schermaglie parlamentari. Davanti ai due perni del Patto del Nazareno – l’Italicum che dava la maggioranza al partito vincente e la riforma costituzionale che aboliva il vecchio Senato accelerando l’iter delle leggi – si trovarono sulla stessa trincea grillini, vendoliani e dissidenti di Pd e Forza Italia: uniti dal “no” a Renzi e alle sue riforme. Paradossalmente, l’ipotesi di un monocolore Pd al governo invece di placare il Pd lo mise in subbuglio, anche perché molti parlamentari messi in lista da Bersani temevano di non essere più ricandidati nel 2018. Poi toccò al sindacato, al quale il Jobs Act non andava proprio giù, perché vi leggeva la demolizione delle tutele per i nuovi assunti. […] Fino a quel momento, almeno sulle riforme istituzionali, il presidente del Consiglio poteva contare sui voti di Forza Italia, preziosissimi soprattutto al Senato. Ma, quando, il 31 gennaio 2015, Renzi ignorò il veto di Berlusconi su Sergio Mattarella, facendolo eleggere presidente, […] l’idillio con l’ex Cavaliere finì. Addio Patto del Nazareno, addio "soccorso azzurro". Lui però continuava ad andare a mille. Mise la fiducia sull’Italicum e mandò in porto anche la riorganizzazione della Rai, assegnando pieni poteri al direttore generale, il renziano Antonio Campo Dall’Orto. E […] fu proprio allora che Renzi commise l’errore di cui forse si è pentito: varare una riforma della “buona scuola” che non piaceva alla maggioranza dei professori. […] Si mise contro, consegnandoli all’antirenzismo permanente effettivo, gran parte di quei professori che negli anni del berlusconismo erano stati sul campo l’anima culturale dell’opposizione ai governi che scrivevano le leggi ad personam per il Cavaliere. Certo, a Palazzo Chigi le luci rimanevano accese fino a tardi. Bisognava affrontare gli sbarchi degli immigrati, gli avvertimenti dell’Unione europea sullo sforamento dei conti e anche l’emergenza terremoto, mentre Renzi cercava nuove misure per tirar su il morale agli italiani: il bonus bebè, l’abolizione dell’Imu sulla prima casa e di quella agricola, l’aumento delle quattordicesime per i pensionati. E forse sperava di recuperare i voti perduti a sinistra, quando è riuscito a mandare in porto la legge sulle unioni civili, che finalmente metteva fine a una discriminazione secolare. Ma anche in quel caso c’è stato qualcuno che ha giurato di fargliela pagare: "Renzi ha tradito la morale cattolica: ce ne ricorderemo al referendum sulle riforme", aveva detto il portavoce del Family Day. Evidentemente non diceva così per dire, e così anche i cattolici più integralisti si sono aggiunti all’armata dell’antirenzismo. Raggiungendo i grillini in cerca di rivincita, la sinistra che lo ritiene un corpo estraneo, i leghisti che vogliono buttarlo giù, gli avversari interni che aspettavano da tre anni lo scivolone, i sindacalisti offesi dal Jobs Act, i professori incavolati per la “buona scuola”, il popolo dei vouchers che gli imputa la sua infinita precarietà e quegli elettori ai quali quel giovanotto spavaldo che governa con i tweet, i post e le slide non è mai piaciuto. Insomma, quella parte dell’Italia che, […] purtroppo per Renzi, si è rivelata maggioritaria» (Sebastiano Messina). «La sua corsa si ferma il 4 dicembre 2016: il referendum sulla sua riforma costituzionale che punta a cancellare il Senato viene bocciato dal 60% degli italiani. Renzi si dimette da premier. Ma non sparisce dai radar: dopo aver annunciato di volersi ritirare se l’esito del referendum fosse stato negativo, ci ripensa. Il 19 febbraio del 2017 rassegna le dimissioni anche da segretario del Pd. Dopo aver vinto con quasi il 67% dei voti, il 30 aprile Renzi viene rieletto segretario con il 69,2%. A Palazzo Chigi c’è Paolo Gentiloni: gli italiani apprezzano il suo stile soft e rassicurante» (Massimo Vanni). Alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, il Partito democratico toccò il punto più basso della sua storia, ottenendo il 18,76% dei voti alla Camera e il 19,16% al Senato. «Ha conquistato la sinistra italiana, in tre mesi l’ha portata al massimo storico, in tre anni al minimo: solo al Bomba poteva riuscire. […] Ma il renzismo […] era finito il 4 dicembre 2016, con la sconfitta per 60 a 40 nel referendum. “Matteo farebbe meglio a sparire. Andare in America. Farsi dimenticare. Lasciare che la sinistra vada a sbattere. Dopo lo richiameranno”. Se avesse seguito il consiglio di un mentore della prima ora, Oscar Farinetti, non sarebbe finita così. Invece Renzi si è incaponito. […] Il suo agonismo si è ritorto contro se stesso. […] Non è la scissione di Liberi e uguali a sancire la sconfitta di Renzi. Che ci fosse spazio alla sua sinistra era nelle cose, e un po’ anche nei suoi schemi. Renzi però ha visto crollare i due veri cardini della sua strategia: ereditare una parte dei voti di Berlusconi; ed erodere il bacino antipolitico di Grillo. Ha perso consensi nei ceti popolari e tra categorie scontente delle sue riforme, come gli insegnanti, senza conquistare il centro. E vede i grillini, che ha sempre considerato il vero avversario, al massimo storico» (Cazzullo). Immediatamente riconosciuta la clamorosa sconfitta, il 12 marzo 2018 Renzi rassegnò le dimissioni dalla segreteria del Pd, affidando la guida del partito al vicesegretario Maurizio Martina, senza però mancare di far sentire la sua voce e il suo peso anche in seguito: la sua assoluta contrarietà fu infatti determinante nel precludere ogni ipotesi di alleanza tra il Pd e il Movimento 5 stelle per la formazione di un nuovo governo. Da allora non ha lesinato interventi in pubblico e invettive contro il nuovo esecutivo, ma non ha ancora assunto una posizione netta rispetto al congresso per l’elezione del nuovo segretario e alle relative primarie, fissate, dopo numerosi rinvii, al 3 marzo 2019. «È lì, a indisposizione di tutti e di nessuno, senatore, giovane-vecchio leader impopolare. Ed è morettianamente incerto: mi si nota di più se ci sono o se non ci sono?» (Ferrara). «Matteo Renzi è diventato l’Amleto della politica italiana. È in preda a dilemmi che non riesce a sciogliere. Sono tre le opzioni che ha davanti. La prima è quella di non fare niente. Stare alla finestra e vedere che succede. Non partecipare al congresso, non sostenere alcun candidato tra quelli in corsa, non avanzare proposte se non quella di dire “no” al dialogo con il M5s. La conseguenza è quella di prolungare indefinitamente l’incertezza che paralizza il Pd. Dentro il partito Renzi conta ancora. Chi ha seguito l’ultima Leopolda […] se ne è reso perfettamente conto. Una parte non piccola del Pd si riconosce ancora in lui. Le sconfitte referendarie ed elettorali lo hanno indebolito, ma per molti resta ancora l’unico vero leader del partito. Chiunque vinca la corsa alla segreteria dovrà fare i conti con questa realtà. […] La seconda opzione è quella di correre lui stesso per la segreteria sfruttando il consenso che ha all’interno del partito. Opzione che tuttavia […] sembrava ormai uscita dalla scena per bocca dello stesso Renzi (“grazie, ma non lo farò”). Sarebbe ad ogni modo la quarta volta. […] La terza opzione è fare un nuovo partito. È quella di cui si vocifera. […] È la scelta più difficile e anche la più complicata. Fino ad oggi Renzi ha sempre respinto questa ipotesi. Lo ha fatto anche dopo le primarie perse contro Bersani, quando molti lo spingevano a uscire dal Pd e a fare una cosa sua. Allora avrebbe anticipato Macron. Ma non se la sentì. […] Adesso la questione si ripropone, ma i tempi sono cambiati. Renzi non è più quello del 2013. Però un pensierino forse lo sta facendo. A che servirebbero altrimenti quei comitati civici che sono l’unica vera novità venuta fuori dall’ultima Leopolda?» (Roberto D’Alimonte) • Assai deludenti, in termini di ascolti, i risultati del documentario in quattro puntate Firenze secondo me (Nove), con cui nel dicembre 2018 ha esordito nelle vesti di conduttore e divulgatore televisivo. «Fino a ieri a giudicarlo era la Storia, adesso sono i critici televisivi; non male come caduta. […] La domanda che ci dobbiamo porre è questa: Firenze secondo me è un documentario sulla città toscana o su Renzi? Il “me” del titolo è più importante di Firenze? Tutto concorre a far sì che il soggetto principale sia Matteo Renzi, come spesso gli accade in altri campi. […] Intanto, il congresso del Pd si avvicina…» (Aldo Grasso) • «Uno dei suoi libri si intitola Tra De Gasperi e gli U2, titolo che fece sobbalzare Prodi sulla sedia. Che infatti, quando lo incontrò, gli fece: “Ma che casso c’entra De Gasperi con gli U2?”. “Io gli risposi che non c’entra appunto un casso, perché oggi per un giovane è molto più formativo, politicamente parlando, un testo di Bono che non un saggio di De Gasperi”» (Riccardo Barenghi) • Sposato con Agnese Landini, insegnante liceale di Lettere, tre figli: Francesco (classe 2001, calciatore nella formazione primavera dell’Udinese), Emanuele ed Ester • Cattolico praticante • Tifoso della Fiorentina • «Scervino sono i vestiti che fanno tanto “Matteo style”: giacche molto sagomate e tagliate, pantaloni che si stringono in fondo, tessuti brillanti, leggeri, con un pizzico di hi-tech» (Wanda Marra) • «Il leader più longevo della breve storia del Pd (appena 10 anni). Eppure l’impressione è che abbia consumato un patrimonio di fiducia, di voti e di credibilità in un baleno, con la velocità di un’immagine futurista. Ma è questo il suo passo, il ritmo di chi procede pensando sempre “mi gioco l’osso del collo”, una delle sue espressioni preferite» (Goffredo de Marchis). «La parabola del renzismo sta tutta nella rapidità traumatica con cui gli elementi caratteriali che ne avevano decretato la rapida apoteosi del 40 per cento ne hanno determinato la caduta rovinosa, altrettanto rapida. […] Manca di spirito autocritico. Pensa sempre che la colpa sia degli altri: delle minoranze, degli anziani, di chi ha intralciato il suo cammino, che sarebbe stato trionfale senza quel partito fastidioso che gli è toccato di scalare e che si chiama Pd. Il coraggio, quello non gli è mai mancato: Renzi ha conquistato il suo partito con una lotta politica aperta, esplicita, non per un gioco di correnti e di caminetti. Ma lui non voleva conquistare: voleva annientare. Una delle sue espressioni favorite è quella che gli risulterà fatale: “Io, a quelli, li asfalto”. Per lui vincere è asfaltare. È sempre esageratamente sopra le righe, perché le vittorie non bastano: occorre schiacciare il vinto, umiliarlo. […] Dopo il successo del 40 per cento cominciò il declino perché Renzi si convinse che gli italiani lo avevano scelto perché adoravano le sue guasconate e non perché aveva distribuito gli 80 euro che voleva subito, immediatamente, senza esitare, in busta paga proprio alla vigilia delle elezioni. Chi dubitava diventava ipso facto “rosicone”, “gufo”, “professorone” (?), addirittura “commentatore dei giornali” (?). Chi obiettava veniva accusato di riportare il Pd al 25 per cento (magari) dalla vetta luminosa del 40 tutta renziana. […] Hanno detto che Renzi assomigliava a Berlusconi. Ma non è vero, almeno sul piano caratteriale. Berlusconi era inclusivo, soffice, coinvolgente, camaleonte che indossava i berretti portati dai suoi interlocutori del momento. Diceva: bisogna essere convessi con i concavi e concavi con i convessi. Ed era naturalmente simpatico, odiato casomai per il suo ruolo di strapotente tycoon. Renzi è tutto il contrario: ha sempre voglia di menare le mani, non è inclusivo, è l’opposto, vuole azzerare. Rottamare: e infatti la sua fama si lega indissolubilmente al termine “rottamazione”, ma in politica l’alleanza dei rottamati è micidiale, e quindi Renzi ha commesso un errore politico nel non averlo capito» (Pierluigi Battista). «L’errore di Renzi non è stato soltanto personalizzare il referendum sulle “sue” riforme; è stato proprio farlo. […] Renzi non ha atteso che fossero le opposizioni a sollecitare il responso popolare; l’ha sollecitato lui stesso, per sanare il vizio d’origine, il peccato originale di non aver mai vinto un’elezione politica. Ma un conto è difendere il proprio lavoro da forze contrapposte che ne chiedono la cancellazione; un altro conto è chiamare un plebiscito su se stessi. Il presidente del Consiglio si è mosso come se il Paese fosse ancora quello del 41% alle Europee. Ha sopravvalutato il proprio consenso e ha sottovalutato il disagio sociale» (Cazzullo). «Renzi è diventato antipatico perché gli italiani non perdonano gli errori, facendone tanti in proprio e vergognandosene nella loro pretesa di perfezione e nella loro naturale ruffianeria. Ha perso una battaglia campale, quella stessa per cui era stato creato da primarie e Nazareno: le riforme e il ballottaggio. Perché ha perso? Lo sappiamo tutti. […] Berlusconi ha il doppio degli anni di Renzi, esigeva rispetto, lo ha promosso da segretario a presidente del Consiglio con un magnifico connubio politico di quelli che si ricordano, sloggiando perfino il nipote del suo amato Gianni Letta da Palazzo Chigi. Perché poi ha deciso di entrare nell’accozzaglia e fottere il suo delfino di sinistra, meglio, né di sinistra né di destra, liberale, diciamo, e riformista, che non lo voleva in galera, solo tra i suoi, e lo voleva emulare competitivamente? […] I giochi erano fatti, in realtà, le riforme varate. Con Amato presidente, consortile la decisione con Berlusconi e perfino D’Alema, Renzi avrebbe potuto attendere fiducioso e anche muto l’esito del trionfale “sì” alle sue riforme. Invece non si fidò che di se stesso, e in una sindrome da onnipotenza, ché era un suo momento alto nell’opinione generale, ma quanto era simpatico, decise di fare la mossa del cavallo. […] Di qui la rissa antinazarenica, e l’autosufficienza insufficiente con cui Renzi provò a vincere il referendum nonostante tutto. […] Errò adunque el Duca, e quell’errore fu cagione dell’ultima ruina sua, scriveva più o meno (nel Cinquecento) Machiavelli a proposito del Valentino. […] Ma la famosa antipatia di Renzi non esiste. È solo la conseguenza di quell’errore, visto con il senno di poi, con gli occhi di oggi, con la sapienza profetica di chi sa prevedere le cose accadute» (Ferrara) • «Il delfino di Silvio è proprio Renzi. Matteo è il leader del suo partito, come Silvio. Ci mette la faccia, come Silvio. Fa comunicazione politica in prima persona proprio come Silvio. Sono convinto che l’ex premier lo veda come una sua reincarnazione dall’altra parte. Renzi è un giovanotto che parla diretto e che si è laureato in politica studiando Berlusconi» (Enrico Mentana). «È come Berlusconi. Un rullo compressore. Nel 1984 il Cavaliere aveva già due reti tv, Canale 5 e Italia 1. Comprò anche Retequattro da Mondadori, e tutti gli dissero: “Sei pazzo, non ti permetteranno di avere tre canali, ti distruggeranno”. Dopo due anni prese anche il Milan, di nuovo contro il parere di molti amici, con folle lucidità. Renzi è uguale. Per questo Berlusconi lo avrebbe voluto in Forza Italia. Alla fine del 2010 ci fu il loro famoso incontro ad Arcore. Ma Renzi confidò a un amico: “Se vado nel Pdl, non potrò mai essere il numero uno”» (Luigi Bisignani) • «Matteo è talmente rapido da farti venire il mal di testa. Ed è sistematico il modo in cui colpisce. Sempre allo stesso modo. Come un serial killer. Prenderlo è difficile. E, anche le rare volte che perde, c’è sempre una botta di culo a rimetterlo in pista. Ha la Provvidenza dalla sua» (Lapo Pistelli) • «Pensano di liberarsi di me. Hanno sbagliato persona».