La Stampa, 9 gennaio 2019
I 12 anni in carcere di Mujica
Quando il regista 42enne Alvaro Brechner è andato a trovare l’ex-presidente dell’Uruguay José «Pepe» Mujica e gli ha comunicato l’intenzione di ricostruire in un film la storia dei suoi 12 anni di carcere duro, iniziata nel settembre 1973 mentre il Paese era sotto il controllo della dittatura militare, si è sentito rispondere: «Perché vuoi tornare il passato?». La ragione era semplice: «Gli ho detto che volevo spiegare come aveva fatto a resistere in quelle condizioni, che il mio racconto avrebbe riguardato l’individuo e non solo quel periodo storico. Mi ha risposto: “Non esiste una sconfitta definitiva, e nemmeno una vittoria definitiva”».
Ogni giorno è un’occasione per mettersi alla prova e scoprire fino a che punto può spingersi l’umana capacità di sopravvivenza: «Durante la realizzazione del film ci siamo incontrati spesso – spiega Brechner – e una volta Mujica mi ha scioccato. Mi ha detto che continua a svegliarsi rimpiangendo il carcere. “Non ho mai più avuto tanto tempo per essere me stesso. Non sarei quello che sono se non avessi vissuto quei dodici anni”».
Il racconto dell’isolamento
Un incubo che il film ripercorre con bruciante aderenza alla realtà, contando sulle prove straordinarie dei tre interpreti Antonio De La Torre (Mujica), Alfonso Tort (Eleuterio Fernandez Huidobro) e Chino Darin (Mauricio Rosencof), e cercando risposte all’interrogativo di fondo: «Come regista mi considero un esploratore, mi do un obiettivo, ma non conosco mai la giungla in cui sto per avventurarmi. Stavolta mi sono chiesto: “Come fa un uomo a mantenersi tale quando è condannato a stare fuori dal contesto umano, quando tutte le luci si spengono, quando precipita nel silenzio, perde la cognizione del tempo e non sa quando tutto finirà?”».
La soluzione è nei destini dei tre ex prigionieri Tupamaro, costretti in isolamento, dentro celle minuscole, quasi sempre incappucciati, legati, denutriti, umiliati nelle fondamentali necessità, trattati come animali e alla fine considerati tali: «La normale conseguenza sarebbe stata impazzire. E invece queste persone sono diventate rispettivamente presidente dell’Uruguay, ministro della Difesa e scrittore di fama: «Quando le circostanze possono far pensare che tutto sia perduto, le potenzialità dell’essere umano non vanno mai sottovalutate».
Preceduto da una preparazione di oltre quattro anni, girato in sette settimane tra Spagna e Uruguay con interpreti che hanno perso ognuno 15 chili, Una notte di 12 anni (da domani nelle sale con Bim e Movies Inspired, dopo l’anteprima alla Mostra di Venezia) è stato scelto per rappresentare l’Uruguay agli Oscar ed è candidato in diverse categorie dei premi Goya: «È stato venduto ovunque ed è uscito simultaneamente nel mio Paese, dove è il film più visto dell’anno, in Argentina e in Brasile. Non è un film facile da vedere, chiede al pubblico di riaprire ferite dolorose non ancora rimarginate».
Eppure, proprio in questa fase storica, riparlare di certi argomenti è importante. Brechner non ha visto né il film di Nanni Moretti Santiago, Italia, né il documentario che Kusturica ha dedicato a Mujica, ma ha assistito alle reazioni spontanee del pubblico, alla commozione, ai discorsi di chi, sui titoli di coda, ha sentito il bisogno di alzarsi in piedi e fare proclami in nome della pace e della libertà: «Sono solo un cineasta, non un profeta e neanche un predicatore. Quella che vedo crescere, e che mi preoccupa molto, è la tendenza mondiale a dare spazio al risentimento, all’odio e alla rabbia. Noi artisti ci siamo sbagliati, non ci siamo accorti della tremenda insoddisfazione che cresce nel popolo, dell’attacco profondo che, negli ultimi anni, ha subito l’illuminismo. È chiaro che il cinema non può risolvere problemi, ma scatenare reazioni sì. Ci può essere chi non condivide le ideologie di sinistra maturate negli Anni 60, chi non si ritrova in certe posizioni politiche. Ma è difficile trovare persone che non empatizzino con il dolore estremo di un individuo».
La chiave del film è nel suo «centro di gravità. Certo, parla della dittatura, ma soprattutto ci svela quanto, nell’ora più buia, possiamo essere forti».