Corriere della Sera, 6 gennaio 1901
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Luigi Barzini senior in Cina
Corriere della Sera, 6 gennaio 1901
Pechino, 14 novembre 1900
(l.b.) Una scarlattina di progresso invade la vecchia pelle del nostro pianeta. I grandi centri ’ industriali e commerciali sorgono rapidamente; dove pochi anni fa era il deserto, ora si distendono dei pezzetti d’Europa, si allargano dei vivai i della nostra attività. L’Australia, il Canadà, il Sud-Africa vengono a mettersi nel rango dei paesi moderni.
La Cina, con la lentezza che le dà la sua mole smisurata, cammina sulla medesima via. Il governo cinese e la classe influente dei letterati possono rinserrarsi nella loro antica immobilità, nella smantellata fortezza delle loro opinioni millenarie, ma non possono impedire alla Cina di muoversi. Il governo cinese è vecchio, infradiciato dalla corruzione che è la sua base; ma il popolo cinese è giovane, è forte. La netta divisione fra popolo e classi dirigenti ha mantenuto il popolo estraneo al lento decadere dei sistemi. Si direbbe che la lunga immobilità politica e sociale abbia riposato piuttosto che disfatto il cinese. La mancanza di nemici esterni e la conseguente pace di tanti secoli ha senza dubbio atrofizzato nell’animo del cinese il sentimento della patria, ha arrugginito quella molla che scatta soltanto nei momenti del pericolo; il cinese non prova che l’amore alla sua terra, alla sua casa; ma in compenso, nel lungo sonno politico, le sue qualità di lavoratore si sono sviluppate.
L’accrescimento continuo, enorme della popolazione lo ha spinto a coltivare intensamente i suoi campi, a commerciare i suoi prodotti, a sviluppare le sue piccole industrie, a lottare infaticabilmente per la vita, a portare fuori del suo paese le sue attività. Il contadino e l’operaio cinese non si concedono riposo. Sotto la tramontana gelata, nei piani di Pao-ting-fu, ho potuto vedere in questi giorni operose squadre di paesani, famiglie intiere, intente a disgregare e passare allo staccio la terra che l’acqua aveva indurito, e attraverso la quale le giovani radici del frumento non sarebbero facilmente penetrate; e questo sopra estensioni enormi di territorio. Di notte, nelle ore più tarde, quando sulle vie di Pechino non rimangono che le sentinelle impellicciate, per seccare il prossimo con i chi va là, e i poliziotti cinesi che cacciano i ladri col suono dei tam-tam e dei tamburelli, nelle botteghe si lavora. Dai grandi telai coperti di carta passa la luce dell’interno, da cui parte sommesso un canto melanconico accompagnato dal rumore del lavoro. I commerci interni della Cina sono enormi. I fiumi e i canali, che coprono l’Impero come di una vasta rete di acque, sono gremiti di giunche e di piccoli vapori, chiatte da rimorchio, alla cui poppa sventola la piccola fiamma gialla col drago araldico. Il numero di questi vapori cinesi è sempre crescente. Salgono e discendono il corso del fiume delle Perle attraverso la folla dei sampans rimontando fino a Te-se nel Quan-si; percorrono lo Yang-tse dalle bocche di Wu-Sung fino ad HanKau. nel centro dell’Impero, discendono nell’Hunan attraverso il labirinto di canali e di laghi che il Yang-tse alimenta; risalgono il Pei-ho. Il mal governo e la corrotta amministrazione, se hanno portato alla scomparsa delle vie di terra, non hanno influito menomamente, grazie a Dio, sul corso del fiumi che, se cambiarono di letto qualche volta, non cessarono di scorrere lenti e superbi, strade maestre economiche e indistruttibili. L’importanza di queste vie è stata così compresa dai cinesi, che, mentre le granitiche vie imperiali cadevano diroccate, o s’inabissavano sui campi, veri eserciti di terrazzieri venivano mantenuti dal governo a guardia dei fiumi per custodirne gli argini immensi e per riparare i danni delle alluvioni. Lo zucchero e la cannella del Quan-tung, l’argento, l’oro, il rame, lo stagno di Yu-nan, l’oppio del Kui-tsceu, il riso dell’Hu-nan scendono, portati da lunghe processioni di giunche e di vapori, a Canton e a Hong-Kong; il the, il tabacco del Fu-kien occidentale e del Kiang-se, la seta e il cotone del Se-tsciuan e dell’Hu-pe, le lane del Tibet dai grandi mercati di Song-Pau, si addensano ad HanKau, che è come il grande cuore commerciale della Cina, dove tutto affluisce e tutto viene poi distribuito. Lo Yang-tse è la sua arteria aorta; Shang-hai ne è la valvola. Da Han-Kau due volte all’anno partono delle flotte immense di giunche che scendono il fiume dirette a Tien-Tsin, portando le trentamila tonnellate di thè che vengono in Europa attraverso la Siberia. Sui grandi fiumi aumenta sempre il numero dei battelli a vapore per il trasporto dei viaggiatori, battelli ben tenuti, proprietà di compagnie assolutamente cinesi.
Per sfruttare dei grandi affari, nei centri di commercio specialmente del sud, le Compagnie cinesi sorgono rapidamente. Lo spirito d’intraprendenza commerciale dei cinesi è singolarmente sviluppato. L’obbligo sacrosanto di fare onore ai propri impegni semplifica straordinariamente la formazione di queste società, che spesso si basano sopra accordi privati senza formalità legali. In questi ultimi anni sono pure sorti dei sindacati cinesi per la costruzione di ferrovie, sindacati che si sono sfasciati urtando due insormontabili difficoltà: il malvolere del Governo e la deficienza di capitali. In Cina il capitale si nasconde – e giace infrutiifero – per sottrarsi alla voracità dei mandarini. La compagnia franco-belga, la quale lavora alla costruzione della importantissima linea Pechino-Han-Kau, è sorta raccogliendo l’eredità di un sindacato cinese.
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Di fronte alla Cina ufficiale che si è cristallizcata nella contemplazione del passato, vi è questa Cina lavoratrice che produce e cammina. Questa è la vera Cina che al contatto del nostro progresso si schiude, come un fiore sotto al sole, mettendo in mostra i suoi tesori. Il governo di Pechino può esserci o può non esserci, le rivolte dei boxers possono scoppiare o no intomo alla capitale, l’Imperatore può risiedere a Pechino o a Si-ngan-fu o può sparire del tutto; questi fatti hanno un’eco lontana nelle provincie dell’Impero e una ben debole influenza sullo sviluppo economico e commerciale di tutta la Cina. La vastità dell’Impero lo salva dalle conseguenze degli sconvolgimenti politici. Il rumore si perde nella distanza, le agitazioni, per gravi e sanguinose che possano essere, non si propagano, si sopiscono e si estinguono dove sono nate, come fuochi accesi in un deserto. Anche perché scoppiate in difesa di idee ed interessi che non sono generali. Gl’interessi del Ci-li non sono quelli del Fu-kien e del Quan-tung.
Sono diversi, come sono diversi il clima, la produzione e la natura delle popolazioni nelle tre provincie. Noi siamo abituati a considerare la Cina come un tutto uniforme; parliamo della Cina come dell’Impero germanico; ogni scrittore di cose orientali ci parla delle virtù e dei difetti del «cinese» come se il cinese fosse un tipo di popolo unico. Nulla di meno esatto. I cinesi non si rassomigliano che per il codino. Ogni provincia dell’Impero forma una specie di regno a sè, con la sua lingua speciale, la sua coltura, le sue idee. Un cantonese non è capito a Fu-ciao, un pechinese è perduto come in terra straniera quando scende nell’Hu-pe. La Francia sa bene quanto sia difficile il combattere le armate del sud; tutti sanno come sia facile fugare le armate del nord. Al sud del fiume Giallo cominciano a distinguere fra «manciuri» e «cinesi». Lì la Manciuria non è più considerata nemmeno come Cina. Per questo gli avvenimenti della capitale vengono ad avere • una maggiore importanza per noi, stranieri, che per i cinesi. La Cina rimane indifferente, mentre sulle Potenze grava sempre la minaccia di una guerra. A Pechino c’è l’anarchia, il governo è scomparso, l’esercito disperso; ebbene Pechino è un punto; la vita di tutto l’impero continua regolare, come prima. La rivolta dei boxers non produrrà né una sosta, né una spinta in avanti alla lenta avanzata della Cina.
La Cina, senza volerlo e senza saperlo, è matura per l’introduzione dei nostri sistemi e dei nostri trovati. L’immenso Impero di Mezzo è a in cammino sulla via del progresso, e il rapido sviluppo del Giappone dimostra come questa lenta avanzata della Cina potrà divenire precipitosa. Sfruttare questo movimento: ecco il problema. Hanno voluto trovare dei punti di somiglianza fra la questione d’Oriente e quella dell’Estremo Oriente. Sono diverse; la questione orientale è politica; quella dell’Estremo Oriente è una questione commerciale. Se la Turchia fosse stata una terra povera e desolata, la complicata faccenda d’Oriente sarebbe sorta egualmente. Se la Cina non fosse il ricco paese che è, non avremmo la questione cinese. Qui non si tratta di fare argine alla squilibrante avanzata russa, soltanto, per le nazioni, ma di farsi argine l’una con l’altra. II Giappone e l’Inghilterra si oppongono ai russi, è vero, ma la Germania, la Francia e la Russia, alla loro volta, hanno tagliato la strada al Giappone, la Germania e la Francia tentano di minare il cammino all’Inghilterra. Le cifre delle entrate delle dogane imperiali danno la chiave di questa lotta. È una lotta di mercanti per l’accaparramento dei migliori posti d’un mercato. Il commercio esterno della Cina è di un miliardo e mezzo all’anno. E l’aumento è continuo. L’Inghilterra ha il primo posto con novecento milioni circa di scambi. Poi viene l’America con centonovanta milioni, il Giappone con centoquaranta, la Germania con ottantacinque, la Francia con centoquaranta, la Russia con settantacinque milioni. Per vincere felicemente la concorrenza, le nazioni lavorano ad abbreviare il cammino, a rendere più rapido uno sbocco ai loro prodotti. L’Inghilterra ha creato la ferrovia Transcanadiana ed una linea rapida di navigazione tra Vancouver e Hong-Kong. In ventisei giorni si arriva da Londra all’isola Victoria. La Russia spinge avanti i lavori della Transiberiana e della ferrovia della Manciuria. Si arriverà a Hong-Kong da Londra in diciassette giorni. La Francia tende ai mercati del centro dal Sud, con le progettate ferrovie dal Tonkino e dall’ Annam. L’Inghilterra, alla sua volta, pensa a congiungere la vallata dello Yangtse con le sue colonie della Birmania e delle Indie: una ferrovia colossale da Calcutta a Shanghai. Il Giappone aumenta sempre il numero e la rapidità dei suoi vapori commerciali. Nel 93 la compagnia «Nippon-Yusen-Kaisha» aveva tanti vapori per un tonnellaggio di 64,000 tonnellate; tre anni dopo il tonnellaggio della sua flotta saliva a 126,000. Era raddoppiato. Con questo il commercio giapponese diveniva subito padrone della Corea. La Germania, debole ancora nell’esportazione in confronto alle sue rivali, si è impadronita di grande parte dell’industria dei trasporti. Il cabotaggio da Hong-Kong a Wladivostok è per metà sotto la bandiera tedesca. Noi in questa lotta non possiamo che essere degli oulsiders. Quando l’Italia è nata come nazione, già si delineavano le rivalità nell’estremo Oriente. La nostra industria è giovane, e i nostri interessi sono così ristretti che noi non possiamo correre il rischio di competere con forze tanto più grandi delle nostre, delle quali interessi immensamente superiori sono i motori poderosi. Si è creduto da alcuni in Italia che un possesso qualunque sulla costa cinese fosse tutto. Il possesso di un approdo qualsiasi in qualsivoglia punto dell’impero non modificherebbe di una linea la nostra situazione di fronte agli altri, perché questo possesso non servirebbe di appoggio, come Kiao-Ciao per la Germania, ad una florida navigazione, non sarebbe una vedetta come Wei-hai-Wei per l’Inghilterra, sorvegliante Porto Arturo, non sarebbe un punto strategico come Porto Arturo per la Russia, solo porto sgombro di ghiacci che l’impero moscovita possegga sul mare libero. Un possesso c’involgerebbe nelle fila della sospettosa politica degli altri, contro i quali non possiamo lottare; le vie alla nostra iniziativa verrebbero inevitabilmente troncate, e ci troveremmo tagliati fuori, per così dire, dalla Cina, isolati dall’interno, padroni di un’isoletta in terra ferma. Una politica protezionista isterilirebbe il possesso nelle nostre mani; una politica liberale lo darebbe agli altri, ai più forti.
il Giappone, il più temuto oggi dei concorrenti al mercato cinese, non possiede un palmo di terra cinese. Esso ha ottenuto Formosa per il trattato di Simonosachi, una bella isola, certo, ricca, produttrice di the, di zucchero, di canfora, eppure tremendamente passiva, per ora almeno, vera palla da galeotto per il «piè veloce» Nippon.
No, non dobbiamo tendere ad un possesso che, per maggior danno, pregiudicherebbe la questione dell’integrità della Cina. Finché questa integrità sarà rispettata, il lavoro degli altri sarà anche un lavoro per noi. Nessuno c’impedirà di camminare sulle vie che gli altri, a loro rischio, avranno aperto. In ogni lotta la parte più bella, si sa, è quella del... terzo che gode.
Si copra la Cina di ferrovie. L’industria ferroviaria non è che un’industria di preparazione. Rappresenta la goccia di lievito dello sviluppo commerciale ed industriale della Cina – cosa che non c’impedisce, del resto, aspettando, di mettere i le mani in pasta, di tentare pure di ficcare un dito nel lievito. Ma l’importante verrà dopo.
È a questo che noi dobbiamo prepararci, e presto.
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Fra cinque anni le principali arterie ferroviarie della Cina saranno compiute; il movimento commerciale sarà decuplo di quello di oggi. L’esportazione europea, americana e giapponese affluirà sui mercati cinesi in feroce concorrenza. La vittoria sarà per quei prodotti che saranno rovesciati sul mercato più presto e a minor prezzo. Ammessi anche dei progressi favolosi nella nostra industria, possiamo credere che i nostri prodotti, risponderanno a queste due condizioni? Sì, se noi fabbrichcremo i «nostri prodotti in Cina.
I bisogni del popolo cinese sono pochi ora. Con la facilità degli scambi questi bisogni sorgono e si moltiplicano. Ma non dimentichiamo quanto spirito industrioso animi il cinese, non dimentichiamo che la Cina immensa si distende sotto tutti i climi e produce perciò a dovizia ogni genere di materia prima, che il carbone, il ferro e l’acqua abbondano in tutto l’impero, che la mano d’opera, ottima, è esuberante. La Cina è in tali condizioni da rendersi assolutamente indipendente dalla produzione straniera, non solo, ma da poter combattere con vantaggio questa produzione su tutti i mercati del mondo. Qualche francese comincia a gettare l’allarme per l’«invadente» industria cinese nel Tonchino. Una cifra delle importazioni, specialmente dall’America, è rappresentata da a macchine; questo è sintomatico. Le nazioni avranno finito per aprire loro stesse le strade alla marcia trionfale dell’industria cinese.
Non è possibile opporci a questa marcia; ebbene secondiamola; cointeressiamoci ad essa Esportiamo in Cina dei capitali, dei tecnici, dei capi-operai, degli agenti, piuttosto che esportare dei prodotti. Non è questione di audacia, ma soltanto di un po’ d’iniziativa.
Un operaio cinese riceve una paga media di cento sapeche, ossia trenta centesimi; un bravo operaio arriva a centoquaranta sapeche, cinquanta centesimi nella nostra moneta. Questi dati sono eloquenti. Escludendo pure come troppo ardita – e non lo è – l’ipotesi di una supremazia industriale della Cina, resta sempre affermato che la Cina in sè stessa offrirà il più vasto mercato del mondo alla produzione creata «sul luogo». Fondare una fabbrica in Cina condurrà sempre ad un successo a colpo sicuro.
Fabbricare che cosa? Tutto. La Cina non ha nulla, ed avrà bisogno di tutto. L’importazione più forte è data ora dai tessuti di cotone che vi mandano l’Inghilterra, gli Stati Uniti e il Giappone. Il cotone cresce abbondante in tutta la Cina, specialmente nel Ci-li, nello Scian-tung, nel Nganhuei, nel Kiang-su, nell’Hu-pe, nello Scien-si. Nel passato mese, per la campagna si vedevano biancheggiare a perdita d’occhio i bei fiocchi della graziosa pianticella. Questo cotone è ad un buon mercato favoloso; i poveri ne riempiono i loro giacigli e ne imbottiscono gli abiti per l’inverno. Una grande parte del cotone cinese viene esportato e ritorna sotto forma di tessuto. Quale tessuto importato potrà competere con un tessuto fabbricato qui? E lo stesso si dica per l’industria delle lane, delle quali ora il Tibet e la Mongolia forniscono mezzo mondo,, si dica per la seta.
A Sciangai, dove il commercio della seta del Kiang-Su fa capo, l’attività inglese ha fatto sorgere alcuni opifici per la manipolazione diretta del prezioso prodotto. I direttori, i tecnici, i capioperai e i sorveglianti in questi opifici sono tutti italiani, ma, ahimè, non c’è neppure un soldo di capitale italiano interessato nell’industria. L’abilità, l’attività e la perizia dei nostri concittadini sono al servizio degli altri. Ma la seta non è soltanto nel Kiang-Su, è in tutta la Cina del centro. Il commercio della seta greggia fa capo ad Han-Kau, il grande centro che fra breve si troverà a quindici giorni dai mercati europei e a dieci da quelli americani. L’industria della seta ad Han-Kau avrà un avvenire immenso. Saranno certamente anche qui, come a Sciangai, dei nostri connazionali chiamati ad organizzare e dirigere il lavoro. Perché non vogliamo fare da noi, unire al lavoro nostro il nostro capitale? Perché sottometterci allo sfruttamento dei nostri talenti e delle nostre abilità? Usciamo un po’ dal nostro piccolo orizzonte, senza paura Fissiamoci bene in mente che la Cina è così ricco paese che non vi sarà sacrificio e lavoro che non verrà compensato al cento per cento.
Questo hanno ben veduto e compreso i Giapponesi. L’Inghilterra ha lottato per avere i porti aperti, e subito è cominciata una significativa invasione di industriali giapponesi nelle principali città. Sono pochi per ora, ma forse non rappresentano che i sondatori, i provini distaccati per lo studio delle correnti. Qualche opificio giapponese è sorto già e vive floridamente. Si tratta ancora di piccole industrie, ma dopo le piccole potranno venire le grandi. Impariamo. Credete che quaggiù la grande politica molto spesso non vale la piccola... industria.
È quasi più necessario per noi interessarci di quanto avviene anche nei piccoli centri commerciali della Cina, piuttosto che appassionarci a ciò che succede a Pechino e alle evoluzioni dei Boxers. È urgente, anzi, che la Cina venga da noi intimamente studiata dal punto di vista dei nostri interessi. Noi la Cina non la conosciamo che attraverso le parole degli altri. Quanto sarebbe stato meglio per noi se prima di mandare dei comandanti di nave a studiare un paio di baie, si fossero mandate delle missioni commerciali – come hanno fatto l’Inghilterra, la Francia, la Germania, gli Stati Uniti – à studiare le produzioni, i commerci e i popoli della Cina, a rilevare i campi più adatti all’attività del nostro paese! Questo è necessario farlo. Meglio tardi che mai. Soltanto sulla coscienziosa e minuziosa relaziono di una missione di esplorazione commerciale, composta non di burocratici, ma di gente pratica, potranno concretarsi i progetti per l’avvenire. Si tratta del futuro, sì, ma è un futuro prossimo.
È necessario moltiplicare il numero dei consoli e degli agenti consolari. Metterci dei giovani attivi e appassionati alla loro missione. E, soprattutto, italiani. Qui, in Oriente, salvo poche e lodevoli eccezioni, non è possibile comunicare con i consoli d’Italia se non si conosce o il tedesco, o l’inglese o il francese. In un paese dove i consoli amministrano la giustizia e giudicano le questioni fra europei, è facile immaginare quale appoggio ricevano i nostri connazionali dai cosidetti consoli d’Italia, So di un console d’Italia nel Quan-tung che si rifiutò di domandare alle autorità cinesi la sospensione dei likin, dazi interni, per il passaggio della merce appartenente ad un italiano. È necessario sapere che questi dazi, quando si tratti di merce di europei, vengono sospesi dietro semplice richiesta del relativo console. Questo console d’Italia, che è inglese, si scusò presso al ministro d’Italia a Pechino con una lettera che veniva a dire presso a poco questo: come console d’Italia avrei domandato la sospensione dei dazi interni; ma siccome questa facilitazione ad un italiano danneggiava gl’interessi inglesi, come inglese non ho domandato niente. Era logico. Noi non siamo logici, che per malintese economie manteniamo di questi agenti, sacrificando i nostri interessi, tagliando le radici ad ogni nostra iniziativa. Nell’estremo Oriente, come per tutto, del resto – in questo siamo imparziali – non abbiamo mai avuto un programma, non abbiamo mai saputo quello che dovevamo fare. Fissiamoci una via e seguiamola con tenacia.
Creare nella Cina dei grandi vivai delle nostre industrie. Non sarebbe questo un bel programma? Ci sembrerà ben meschina l’idea d’una colonia, quando da tutte le parti dell’immenso impero, i cui straordinari tesori sono appena esplorati, potrà scorrere verso il nostro paese un fiume di ricchezza!
Luigi Barzini