Corriere della Sera, 9 gennaio 2019
Sott’acqua per togliere le mine dai mari
Quarantacinquemila ordigni esplosivi sono stati disinnescati dai palombari della Marina militare nelle acque italiane nel 2018. Una quantità che stabilisce un record (rispetto ai decenni passati) e che rimanda a un fenomeno poco conosciuto ma reale: da Monfalcone a Trapani, il mare è un immenso arsenale di armi sepolte. Sulla terra è più facile averne memoria. Cimiteri, monumenti, colonne, obelischi e ossari sono visibili. Segnano il ricordo di due guerre mondiali e l’eredità di cruente battaglie militari. In mare tutto ciò non si vede, perché la storia è come adagiata sui fondali. Di tanto in tanto però riemerge e torna a galla. Le decine di migliaia di esplosivi distrutti ogni anno sono lì a testimoniarlo. In molti casi si tratta di congegni inesplosi. Spesso si trovano vicino a paesi, scogliere, sfiorati dai sub sportivi. Alcuni finiscono nelle reti dei pescherecci.
Agosto, Catania, pochi metri da uno stabilimento balneare. Un bagnante sta entrando in acqua e nota a 40 centimetri di profondità strani oggetti. Intervengono i palombari che individuano proiettili e una bomba a mano italiana tipo Srcm. Giacevano inesplosi in quelle acque da oltre 70 anni. «Il numero record del 2018 si spiega anche con le accresciute segnalazioni delle persone, soprattutto sub sportivi», spiega il comandante Giampaolo Trucco, capo Nucleo informazione dei palombari di Comsubin (Comando Subacquei ed Incursori, con sede a La Spezia).
I palombari – fino al 28 gennaio è aperto il bando di concorso all’Accademia navale per accedere a questa carriera, per informazioni: urp@marina.difesa – giocano un ruolo centrale in questa opera di rimozione. Hanno conoscenze, mezzi e capacità (come andare sotto fino a 300 metri, unici al mondo) che altri non hanno.
Mezzi e conoscenze
Gli esperti della Marina si immergono fino a 300 metri di profondità
In acqua si trovano molti ordigni di tipo non marittimo. La cosa si spiega per due motivi. Le circa 160 mila tonnellate di esplosivo lanciate dagli aerei alleati tra il 1940 e il 1945. E l’enorme quantità buttata in mare a conflitto finito. «Subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale gli arsenali erano pieni di armi e munizioni», spiega lo storico Leonardo Goni. «Bisognava eliminarle per evitare esplosioni più o meno accidentali o che potessero essere utilizzate per altri fini. Il modo migliore per sbarazzarsene era gettarli in mare, nei fiumi o nei laghi. All’epoca il problema ambientale non era percepito».
Che il mare fosse un enorme arsenale militare non è sfuggito alle mafie. Il tritolo usato per le stragi di Capaci e di via D’Amelio (tra 1.280 e 1.340 kg di esplosivo) sarebbe stato recuperato da residuati bellici, bombe inesplose lanciate dagli aerei contro i sottomarini. La ‘ndrangheta per anni s’è rifornita da un mercantile, il Laura C, affondato nel 1941 al largo della costa reggina, davanti a Saline Ioniche. Era adagiato a circa 60 metri di profondità, con un ingente quantitativo di esplosivo nella stiva. Resta l’episodio forse più grave, a lungo taciuto: l’esplosione al largo di Bari nel 1943 della nave americana John Harvey, dotata di armi chimiche (540 tonnellate di gas iprite). La realtà ci dice che una bonifica definitiva non è stata fatta.
Le operazioni condotte dai palombari nel 2018 sono una cinquantina. Le più recenti si sono svolte tra novembre e dicembre. In quei giorni un peschereccio ha tirato su tre mine anticarro e un panetto di tritolo. Cinque granate d’artiglieria e casse di munizioni sono state rinvenute tra i resti del relitto della Regia Torpediniera Lince, affondata da un sommergibile britannico. In un caso si è rischiata la vita dei militari, per il tipo di operazione classificata ad alto rischio. È successo a Fano, sul lungomare Sassonia, dove a marzo è stata ritrovata una bomba d’aereo inglese MK6 di 250 chili, innescata accidentalmente. I palombari sono entrati in azione, la Ferrovia Adriatica è stata bloccata per ore e 23 mila persone sono state evacuate. La bomba è stata distrutta in mare.