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 2019  gennaio 09 Mercoledì calendario

La Russia che piace in Europa

Sarebbe una buona cosa se in questo 2019 gli europei si ponessero pubblicamente (entro i Parlamenti nazionali, negli organismi dell’Unione europea, sui mass media) il seguente interrogativo: quanto forte è destinato a diventare nei prossimi anni il «partito russo» in Europa? Sembra accertato che una conseguenza della congiuntura in atto (indebolimento dei legami interatlantici, crisi dell’Unione, insorgenza populista in alcune democrazie occidentali) sarà una maggiore influenza russa sul Vecchio Continente rispetto al passato. È solo apparentemente paradossale il fatto che sia la Russia, economicamente depressa e sottosviluppata (come ha efficacemente documentato Federico Fubini sul Corriere del 6 gennaio), anziché la Cina, una autentica grande potenza economica in ascesa, a poter trarre i maggiori benefici politici da uno stretto rapporto con l’Europa. La Cina ha capitali da investire ovunque, e li investe anche qui, ma è dubbio che i guadagni politici possano essere all’altezza degli investimenti economici. Dal momento che è troppo grande la distanza, sia geopolitica che culturale, che corre fra Cina e Europa.
Diverso è il caso della Russia, nano economico ma anche grande potenza militare. La Russia, nel rapporto con l’Europa, dispone di tre vantaggi.
p rimo vantaggio: una vicinanza geopolitica tale per cui può usare la sua forza militare, se e quando occorre, per intimorire i deboli e divisi europei. Secondo vantaggio: una certa capacità di sfruttare politicamente il proprio ruolo di fornitore di energia. Terzo vantaggio: la possibilità di fare leva su solidarietà più o meno spontanee fra gli europei, forse altrettanto estese di quanto lo sia l’antiamericanismo, un sentimento fino ad oggi non maggioritario in Europa ma comunque, tradizionalmente, molto forte.
Si noti che esiste un rapporto fra i fallimenti economici della Russia e il suo attivismo internazionale. Dai tempi degli zar fino a Putin (passando per l’epoca dell’oligarchia partitica sovietica), i gruppi dirigenti russi si sono sempre legittimati agli occhi dei sudditi facendo ricorso all’espansionismo territoriale e all’aggressività verso l’esterno. La «democrazia autoritaria» (o illiberale) guidata attualmente da Putin non fa eccezione. Tanto più che il mancato sviluppo economico interno, e il peggioramento delle condizioni di vita dei russi, impongono a Putin di ricorrere a diversivi: gonfiare i muscoli e lanciarsi in avventure internazionali. La Russia non ha avuto remore a prendersi la Crimea infrangendo così il tabù su cui si regge la pace in Europa, secondo il quale è vietato modificare unilateralmente i confini. Essa inoltre utilizza a tutto spiano contro gli occidentali la tecnologia informatica. E sfrutta l’indebolimento americano (accelerato e aggravato oggi dalla politica di Trump) per squilibrare a proprio favore i rapporti di forza militari in Europa mentre, contemporaneamente, agita lo spettro di una po ssibile guerra nucleare.
Tutto ciò però non basterebbe ad avvantaggiare politicamente la Russia se essa non potesse contare qui da noi su diffuse simpatie. Tanto l’estrema sinistra europea (la Russia è pur sempre l’erede dell’Urss) quanto l’estrema destra attratta dall’autoritarismo russo alimentano quelle simpatie. Le alimenta anche l’insorgenza populista: quale più quale meno, i movimenti detti sovranisti combinano l’ ostilità per gli Stati Uniti e per l’Unione europea con l’amicizia per la Russia.
Tuttavia, non è la «politica politicante» a contare maggiormente. Contano soprattutto certi «valori» (o «disvalori»: è una questione di punti di vista), certe propensioni culturali, certi orientamenti di fondo. Vale essenzialmente quell’avversione per la società libera da sempre assai diffusa in Europa. Ne è una componente l’antiamericanismo, una ostilità per gli Stati Uniti talmente forte da rendere chi ne è affetto incapace di accettare l’evidenza: il fatto che sia meglio vivere in Europa all’ombra della leadership statunitense piuttosto che di quella russa.
D’altra parte, proprio l’Italia e la Francia (i due Paesi con i più forti partiti comunisti d’Europa all’epoca della guerra fredda) sono stati testimoni della presenza di molti cittadini che, in quei tempi, la pensavano più o meno così: «Piuttosto che essere immersi, come siamo, nella “barbarie” capitalista, oppressi dal brutale imperialismo americano, sarebbe molto meglio per noi vivere nelle felici condizioni delle “democrazie popolari”, protette dall’Urss e dal patto di Varsavia». Se allora erano in tanti quelli che pensavano seriamente queste cose, perché meravigliarsi se oggi ci sono altri che, come quei loro predecessori, vorrebbero liberarsi dell’alleanza con gli Stati Uniti e legare strettamente le sorti dell’Europa a quelle della Federazione russa? Se tu, europeo, disprezzi la democrazia liberale, se pensi che le libertà che essa protegge siano una finzione, se hai la convinzione che il mercato sia uno strumento inventato dai ricchi per opprimere e sfruttare i poveri, se ritieni che l’America, con la sua ostentata ricchezza, sia la peggiore di tutte le società esistenti, il luogo ove vige la dittatura del denaro malamente nascosta da una Costituzione ipocrita e da istituzioni pseudo-democratiche, a chi altri puoi rivolgerti se non ai russi?
La competizione fra le grandi potenze può spostare provvisoriamente gli equilibri politici a favore dell’una o dell’altra. Ma i successi più duraturi, quelli si ottengono solo quando si riesce a conquistare i cuori. In forme rinnovate, continua in Europa il confronto, che dura da qualche secolo, fra i nemici della società libera e i suoi difensori.