il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2019
Dove nascono i guai di Unicredit
C’è stato il colpo basso della Turchia, con quella svalutazione di oltre 800 milioni effettuata nell’ultima trimestrale sulla controllata Yapi, a ricordare che per una banca globale e sistemica (l’unica italiana) come UniCredit le sorprese possono arrivare da qualunque parte del mondo. Ma la banca guidata da Jean Pierre Mustier ha quest’anno un cruccio in più e si chiama Germania. Sembra un paradosso, ma le cose nel 2018 non vanno bene in terra tedesca. Tra le molteplici attività del gruppo, la Germania è quella che langue di più nei conti dell’istituto.
La sorpresa si è vista nei conti dei primi 9 mesi dell’anno: il mercato tedesco è oggi un problema. Il margine d’interesse è sceso di un buon 11% in 12 mesi, da 1,25 miliardi a quota 1,12 nel settembre di quest’anno. Anche le altre voci di ricavo prodotte a Francoforte sono in calo, dal trading alle commissioni. Negli ultimi 12 mesi la divisione germanica ha conseguito 1,85 miliardi a fronte dei 2,06 del 2017. La divisione commerciale Italia ha visto un calo dei ricavi totali dell’1,2% ma non certo dell’11% come accaduto in terra tedesca. Ci si sono poi messe pure le sorprese negative una tantum ad appesantire la situazione. La divisione tedesca (che comprende pure la controllata Hvb) ha sofferto di un nuovo accantonamento straordinario di 342 milioni che hanno portato gli utili a più che dimezzarsi, a soli 200 milioni a fronte di quasi mezzo miliardo del 2017. Che le cose non vadano bene lo si evince dalla graduatoria della redditività tra le varie aree del mondo. Il commercial banking tedesco ha oggi un Roac (il parametro usato da UniCredit) al 5,9% contro il 14% di un anno fa. Tanto per dare un’idea le attività in Italia vedono un Roac al 13,8%, più del doppio. L’Italia ha visto i profitti netti salire da poco meno di 900 milioni a 1,11 miliardi, una crescita del 26%. Sul piano dell’efficienza operativa l’Italia oggi ha un rapporto di costi su ricavi al 56%, mentre la divisione tedesca con i suoi 9.300 dipendenti è vicina al 69%. Insomma: profitti dimezzati, redditività tra le più basse del gruppo e un indice di efficienza operativa pessimo. L’area economica più solida dell’eurozona non premia chi fa banca.
Non è l’Italia oggi il malato per UniCredit. Eppure ancora si parla di un piano B. Un eventuale scorporo delle attività italiane (considerate più rischiose) dal resto del business di UniCredit da sempre forte nell’Europa dell’Est. A vedere i dati, però, le cure più urgenti servono al di là delle Alpi. Per il resto la cura Mustier prosegue. Finora ha badato molto a pulire la banca dalla zavorra delle sofferenze, costata ai soci una perdita nel solo 2016 di 12 miliardi, dopo quella dell’era Ghizzoni per 13 miliardi nel 2013. Del resto UniCredit è la banca che più ha pagato il conto delle sofferenze. Come documenta R&S Mediobanca sui 74 miliardi di aumenti di capitale chiesti dal sistema bancario italiano dall’inizio della crisi per rimpolpare il patrimonio eroso dalle svalutazioni dei crediti malati, la sola UniCredit ha contribuito per oltre 27 miliardi.
Ora però la banca ha un asset quality tra le migliori in Italia con i prestiti deteriorati lordi scesi all’8,3% del totale degli impieghi. Banca ripulita, ma ancora in mezzo al guado quanto a operatività. I ricavi sono ancora deboli, scesi dell’1,1% anche negli ultimi 12 mesi. Il risultato di gestione è in crescita solo per i continui tagli di costo. Solo dalla fine del 2015 sono usciti dal gruppo ben 13 mila persone tra esuberi e personale uscito con le cessioni. Notevole il dimagrimento all’estero dove nel 2013 UniCredit impegnava ben 80 mila persone scese a 43 mila a fine del 2017. Una cura da cavallo. E del resto la banca ha perso per strada solo negli ultimi 5 anni un 10% dei suoi ricavi totali. Insomma non si è ancora recuperata pienamente la capacità di tornare a fare ricavi come un tempo. Come stupirsi, dato che la banca ha effettuato una delle più pesanti strette sul credito, con i prestiti totali scesi per quasi 50 miliardi nell’ultimo quinquennio.