il Giornale, 9 gennaio 2019
Storia del crac Carige
I magheggi vengono da lontano. Tutto inizia un freddo mattino del 1993 quando l’allora direttore di Carige Giovanni Berneschi e il presidente della banca ligure Gianni Dagnino si presentano alla sede del Creditanstalt di Vienna con due borsoni contenenti i loro risparmi. L’Italia, investita dal ciclone Mani pulite, attraversa un periodo difficile e c’è il timore che il Paese possa affondare ma la coppia, che rappresenta il ponte di comando del potente istituto di credito, non si fa scrupolo di portare all’estero i propri capitali.
È solo il primo capitolo di una storia sventurata e criminale durata tanti, troppi anni, sempre nel segno del Magro, come Berneschi viene chiamato per via del suo fisico asciutto. L’uomo diventa potente, sempre più potente e fa incetta di galloni: presidente di Carige, addirittura vicepresidente di Abi, altro tratto inquietante col senno di poi.
Il saccheggio che porterà al disastro è già cominciato ma il pentolone verrà scoperchiato solo nel 2013, con l’ispezione della Banca d’Italia. Berneschi e il suo compagno di merende Ferdinando Menconi, amministratore delegato del ramo assicurativo di Carige, hanno, a leggere la radiografia del tribunale di Genova, un unico scopo: arricchirsi. Come Paperoni. Per questo, almeno secondo le sentenze di primo e secondo grado, hanno escogitato un meccanismo semplice ma collaudato nella sua banalità: truffare le proprie società spingendole a comprare alberghi su alberghi sempre dai soliti amici degli amici, i Cimatti e i Cavallini, a prezzi stratosferici. Inconcepibili. Fuori mercato.
Contemporaneamente Carige si espone con disinvoltura riempiendo con pacchi di banconote alcuni imprenditori che rientrano nelle grazie del dominus. Ernesto Cavallini, con cui Carige si espone per 75 milioni; e poi Alessandro Nucera, costruttore in vista di Ceriale che alla fine lascia il più classico dei buchi, scappando ad Abu Dhabi, dove è tuttora latitante, e da dove intona davanti alle telecamere di Chi l’ha visto? una geremiade sull’esiliato perseguitato dalla giustizia. Prestiti. Fidi. Sofferenze. Soldi facili che inondano anche l’immancabile Enrico Preziosi, uno dei nomi più scintillanti di questa telenovela finanziaria, presidente del Genoa e a capo di un piccolo impero nel mondo dei giocattoli.
Genova capitale dell’understatement dissimula ancora oggi quel che è accaduto, gli sperperi e le creste andati avanti forse per un ventennio. D’altra parte il sistema di potere creato da Berneschi, il comitato d’affari, come lo ribattezzano con scarsa fantasia e molto realismo i magistrati, è trasversale, la trama delle mosse oblique o semplicemente sbagliate raggiunge famiglie importanti ma riservate come solo i liguri sanno esserlo. Tanti soldi, poco clamore, come con gli Orsero di Pietra Ligure, quelli delle banane.
Il doppio binario politico garantisce coperture da una parte e dall’altra: nel cda ci sono il vicepresidente Alessandro Scajola, fratello dell’ex ministro Claudio, e Remo Checconi, uomo forte delle coop liguri. Un binomio perfetto, un meccanismo che paradossalmente servirà per attutire il colpo quando lo scandalo esploderà. Genova non è l’Arezzo di Etruria, con l’indice dell’opinione pubblica puntato contro la famiglia Boschi al gran completo, e nemmeno la Siena del Monte dei Paschi, dove fra misteri e suicidi eccellenti è il vecchio Pci, nelle sue evoluzioni, l’imputato unico.
Eppure a Genova il quadro è anche peggiore, come spiega la giornalista Carlotta Scozzari nel suo documentatissimo libro «Banche in sofferenza – La vera storia della Carige di Genova». La truffa è una ruota che gira a una velocità infernale: «Carige – scrive Scozzari – acquista dal gruppo immobiliare Cimatti la sede storica di Norditalia, in viale Certosa a Milano», e nel 2004 dal gruppo di Ernesto Cavallini «il complesso turistico alberghiero Novotel». Ancora, Carige Vita Nuova si fa spennare ancora da Cavallini, comprando il Mercure di Milano e la Pisana di Roma con prezzi superiori al valore reale del 50%. Una follia.
La verità è che Berneschi fa il bello e il cattivo tempo, esercita, «un ruolo egemonico», fa colare a picco l’istituto che svuota con costanza quotidiana. «Nella mia vita di lavoro – è la sua debole autodifesa – ho guadagnato 40 milioni, sono i miei stipendi». In tribunale gli appioppano 8 anni e 2 mesi per truffa e associazione a delinquere. Un unicum nel pur devastato panorama del credito tricolore. E in appello l’ormai ex, che intanto ha superato la linea d’ombra degli ottanta anni, incassa un altro schiaffo: 8 anni e 7 mesi. Un record sul pallottoliere che racconta le disgrazie di troppi risparmiatori italiani.